A mano a mano che nei clienti è cresciuta
l’attenzione verso il tema della tutela dell’ambiente
sono proporzionalmente cresciute, nelle funzioni di
marketing aziendali, le tentazioni di dare una spennellata
di verde alle proprie comunicazioni commerciali

Letteralmente il termine è una sincrasi tra le parole inglesi green, verde, e washing, lavaggio, e nasce proprio, negli anni ottanta, perché riferito al lavaggio molteplice e continuo degli asciugamani nelle stanze d’albergo statunitensi con ingenti consumi di acqua, detersivi ed energia. In realtà, si trattava di un espediente comunicativo delle grandi catene alberghiere per dare una giustificazione ambientale a quello che, invece, era un semplice espediente per ridurre i costi di gestione.

Anche riferendosi alla parola whitewash, che può tradursi anche come “coprire”, “dissimulare”, “cancellare”, la sostanza non cambia: il greenwashing è sempre stata, una pratica di mistificazione della realtà. Negli anni novanta il termine fu utilizzato per descrivere la comunicazione di grandi aziende americane chimiche petrolifere, come ad esempio Chevron o DuPont, che cercavano di presentarsi come industrie ecologiche, nonostante i notevoli danni causati alle persone e all’ambiente dalle loro attività inquinanti.

Ovviamente a mano a mano che nei clienti è cresciuta l’attenzione verso il tema della tutela dell’ambiente (dopo la pandemia da Covid è addirittura esplosa) sono proporzionalmente cresciute, nelle funzioni di marketing aziendali, le tentazioni di dare una spennellata di verde alle proprie comunicazioni commerciali. E ben poche aziende hanno dimostrato di saper resistere a questa tentazione, specie le più grandi, dimostrando che le dinamiche interne vedono sempre più la prevalenza dell’attenzione al mercato, piuttosto che dell’attenzione ai clienti (e alla verità). Gli esempi non mancano nel mondo, ma anche in Italia.

Oltre ai casi delle aziende petrolifere americane, già citate, tra i più clamorosi c’è quello della Coca-Cola Life che, qualche anno fa, parlò della sua bibita come un prodotto a basso contenuto calorico per la presenza della stevia (un prodotto vegetale con potere dolcificante di 250 volte più alto dello zucchero) al posto dello zucchero.

In Italia, i casi di greenwashing rientrano nelle ipotesi di “pubblicità ingannevole” la cui vigilanza è affidata dal Codice del Consumo all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) che, all’esito della sua valutazione (attivabile d’ufficio o su segnalazione di qualsiasi cittadino), ne può inibire l’ulteriore diffusione e/o irrogare sanzioni pecuniarie fino ad un massimo di 5 milioni di euro.

Ciononostante, i casi di greenwashing nostrani non sono mancati. Per citare solo alcuni dei casi accertati e sanzionati dall’AGCM, tra i più noti c’è lo spot di Ferrarelle che pubblicizzava la bottiglia a “impatto zero” promettendo la compensazione della CO2 emessa con la tutela di nuove foreste (in tema, si vedano i miei articoli “Quando la sostenibilità è in vendita”, qui, e “Prima inquino, poi mi pento e mi autoassolvo”, qui). Ma, in realtà, la CO2 non veniva affatto interamente compensata e la Ferrarelle è stata condannata. E così anche per l’Eni, che aveva definito il proprio gasolio come “green diesel”, contrariamente al vero, secondo quanto accertato dall’Autorità che ha imposto a Eni di non utilizzare più la pubblicità e disposto una sanzione amministrativa, per pratica commerciale scorretta di 5 milioni di euro “pari al massimo edittale, tenuto conto della gravità e della durata della violazione”.

Secondo la definizione della legge italiana, la pubblicità rientra tra le “pratiche commerciali tra professionisti e consumatori” e, quindi, si può incorrere nel greenwashing con “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, …, posta in essere da un professionista, in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori”. Anche il packaging e l’etichettatura, sono compresi, così come è compresa qualsiasi forma di comunicazione: cartacea, visiva, radiofonica, sui media tradizionale, sui social, sul web, ecc..

Ultimamente, ClimateAid Network e Acu Associazione Consumatori Utenti, dopo la segnalazione di greenwashing della pubblicità di Poste Italiane, che l’ha indotta a modificare la propria pubblicità (trovate le info qui), hanno segnalato all’AGCM 20 aziende che in Italia producono e/o vendono energia, che affermano di poter portare a casa dei propri clienti energia elettrica green proveniente solo da fonti rinnovabili. In realtà, in Italia, se non si autoproduce l’energia, questa è sempre immessa in una rete che arriva a casa ed è composta da un mix di energia proveniente da fonti fossili e rinnovabili, italiane ed estere.
Sarà greenwashing anche questo? Attendiamo il responso dell’AGCM.

Giuseppe d’Ippolito