Il settore militare è un settore che emette molte quantità
di gas a effetto serra e che consuma molti combustibili fossili,
in tempo di guerra ma anche in tempo di pace. E sarà proprio
la crisi climatica a far aumentare le possibilità di conflitti armati

La recente notizia, poco sottolineata in verità, che gli Stati Uniti invieranno all’Ucraina munizioni all’uranio impoverito, dopo le bombe a grappolo, dovrebbe indurre a qualche riflessione. Già la Gran Bretagna, nel marzo scorso, aveva inviato all’Ucraina munizioni anticarro all’uranio impoverito e anche questa notizia era passata pressoché inosservata. Anche se si tratta di armi che non sono vietate da alcuna convenzione internazionale e vengono usate in molti paesi, Russia compresa, le Nazioni Unite  spiegano (qui) che l’uranio impoverito è “un metallo pesante tossico” e aggiungono, di concerto con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea, qui), che l’uranio impoverito può essere pericoloso per chi con esso entra in diretto contatto. Il danno consisterebbe nella contaminazione da radiazioni. Effetti collaterali e nefasti di una guerra, che imporranno una profonda bonifica dei territori coinvolti per evitare che questi armamenti possano continuare a creare danni ai civili, anche a molti anni di distanza dalla fine della guerra.

Ma le relazioni tra guerre e crisi ambientale non finiscono qui.
Iniziamo dall’impatto dell’intero settore militare di uno Stato nelle emissioni di gas a effetto serra che influenzano direttamente tutti i cambiamenti climatici in atto. Uno studio di Nature (qui) rileva che il settore bellico contribuisce con una quota compresa tra l’uno e il cinque per cento alle emissioni globali di gas serra. Ma, sin dal protocollo di Kyoto del 1997, le emissioni militari sono sostanzialmente escluse dai vincoli di comunicazione e dai trattati sul clima. Anche l’Accordo di Parigi del 2015 ha ribadito la libertà di scelta degli Stati nella contabilizzazione delle proprie emissioni militari. E così alcuni governi lo fanno e altri no.

Secondo lo studio “US Military Pollution: The World’s Biggest Climate Change Enabler” (qui) del Movimento Earth Org, “L’inquinamento militare degli Stati Uniti contribuisce in modo significativo al cambiamento climatico. Se fosse uno stato nazionale, sarebbe il 47° più grande emettitore del mondo. La loro negligenza, i test nucleari e il disprezzo per la vita umana hanno avuto un enorme costo ambientale e una riforma deve essere presa in considerazione per proteggere il nostro pianeta”. Tra il 2001 e il 2017 si è stimato che il Dipartimento di Stato americano abbia emesso 1,2 miliardi di tonnellate di CO², che sono più o meno il consumo annuo o, meglio, le emissioni annue di 257 milioni di macchine, che sono esattamente il doppio di quelle che circolano negli Stati Uniti.

Ancora, lo studio realizzato dall’Osservatorio Conflitti e Ambiente e da Scienziati per la Responsabilità globale (“The carbon footprint of europe’s military sectors, qui) afferma che l’impronta di carbonio degli eserciti europei nel 2019 è stata equivalente. più o meno, a 8 milioni di tonnellate l’anno di CO², pari a quella di 14 milioni di automobili.
Le emissioni dell’apparato militare italiano sono comprese tra uno e due milioni e mezzo di tonnellate all’anno, all’incirca quelle di una città come Torino, a cui però bisogna aggiungere anche quelle che arrivano dalle aziende che sono impegnate nelle attività militari – per l’Italia, ad esempio Leonardo, ma anche altre aziende – e, quindi, se mettiamo insieme tutto quanto arriviamo a emissioni di CO2 che sono di quasi 25 milioni di tonnellate l’anno, che corrispondono al 10% delle emissioni dell’Italia.

In un altro articolo di Nature, “Climate as a risk factor for armed conflict” (qui), si affronta l’altro aspetto del rapporto tra guerre e rischio climatico: quando i conflitti sono una delle conseguenze del riscaldamento globale. Dal 3% al 20% dei conflitti del secolo scorso ha avuto fra le cause scatenanti fattori legati al clima e il rischio aumenterà per effetto del riscaldamento globale. Prendendo in considerazione lo scenario peggiore ipotizzato, in cui la temperatura media dovesse aumentare di 4 gradi, secondo Nature, l’influenza del clima sui conflitti potrebbe aumentare addirittura di cinque volte, facendo crescere del 26% il rischio di conflitto. Ma anche riuscendo a limitare l’aumento a 2 gradi, come previsto dal Protocollo di Parigi, il rischio di conflitto aumenterebbe del 13%. Un déjà-vu nella storia umana, la scarsità delle risorse è sempre stata una delle cause principali delle guerre e noi sappiamo che tra le conseguenze dei cambiamenti climatici ci sono: la desertificazione, la siccità, la perdita di raccolti e allevamenti.

Ovviamente, il timore concreto è che si combatterà per l’acqua e il cibo, ma oggi ancora si combatte anche, e soprattutto, per le fonti fossili, il petrolio, il gas. E poi, i disastri all’ambiente provocati da bombardamenti e altri strumenti di morte. La pagina Facebook di Emergency ricorda che durante i conflitti in Asia e in Africa sono stati uccisi direttamente dalle attività belliche fino al 90% dei vertebrati terrestri; i crateri che vengono lasciati dalle bombe modificano il suolo, spesso espongono la falda superficiale agli inquinanti che sono rilasciati durante le esplosioni. L’esempio più noto è quello della guerra del Vietnam, perché si stima che l’esercito americano lì abbia sganciato più di 7 milioni di bombe. Queste hanno sconvolto il paesaggio e molto spesso non è stato possibile ripristinare le condizioni precedenti, ripristinare le coltivazioni perché la circolazione della parte superficiale era stata completamente stravolta. Durante la prima guerra del Golfo quando, in seguito all’invasione del Kuwait, gli iracheni hanno fatto saltare in aria 800 pozzi di petrolio e 600 di questi hanno preso fuoco e si stima che le emissioni generate da questi incendi siano state pari al 3-4% delle emissioni globali di quell’anno. Nel bombardamento della Nato della Serbia nel 1999, quando è stata colpita la raffineria di Novi Sad, le Nazioni Unite hanno stimato che siano uscite 50.000 tonnellate di petrolio, in parte bruciate, in parte sono andate a contaminare il terreno circostante.
E la contabilità dei danni ambientali (oltre che umani) nella guerra Russia – Ucraina è ancora tutta da scrivere.
Una ragione in più per essere contro tutte le guerre.

Giuseppe d’Ippolito

 

 

 

 English version
Climate from wars and climate wars
The recent news, little emphasized in truth, that the United States will send depleted uranium munitions to Ukraine, after cluster bombs, should prompt some reflection. Britain had already sent depleted uranium anti-tank munitions to Ukraine last March, and this news, too, had gone virtually unnoticed. Although these are weapons that are not banned by any international convention and are used in many countries, including Russia, the United Nations explains (here) that depleted uranium is “a toxic heavy metal” and adds, in consultation with the International Atomic Energy Agency (IEAA, here), that depleted uranium can be dangerous for those who come into direct contact with it. The harm would consist of radiation contamination. Collateral and nefarious effects of a war, which will require a deep cleanup of the territories involved to prevent these armaments from continuing to create harm to civilians, even many years after the end of the war. But the relationships between wars and environmental crisis do not end there. Let’s start with the impact of a state’s entire military sector in greenhouse gas emissions that directly influence all the climate changes taking place. A study in Nature notes that the military sector contributes between one and five percent of global greenhouse gas emissions. But since the 1997 Kyoto Protocol, military emissions have been essentially excluded from reporting constraints and climate treaties. Even the 2015 Paris Agreement reaffirmed states’ freedom of choice in accounting for their military emissions. And so some governments do and some do not. According to the study “U.S. Military Pollution: The World’s Biggest Climate Change Enabler” (here) by the Earth Org Movement, “U.S. military pollution contributes significantly to climate change. If it were a nation state, it would be the 47th largest emitter in the world. Their neglect, nuclear testing and disregard for human life have taken a huge environmental toll and reform must be considered to protect our planet.” Between 2001 and 2017, it was estimated that the U.S. State Department emitted 1.2 billion tons of CO², which is roughly the annual consumption or, rather, the annual emissions of 257 million cars, which is exactly double the number of cars on the road in the United States. Again, the study carried out by the Conflict and Environment Observatory and Scientists for Global Responsibility (“The carbon footprint of europe’s military sectors) states that the carbon footprint of European armies in 2019 was equivalent. roughly, to 8 million tons per year of CO², equivalent to that of 14 million cars.The emissions of Italy’s military apparatus are between one and two and a half million tons per year, roughly that of a city like Turin, but to which we must also add those that come from companies that are engaged in military activities-for Italy, for example, Leonardo, but also other companies-and, therefore, if we put it all together we arrive at CO2 emissions that are almost 25 million tons per year, which corresponds to 10 percent of Italy’s emissions. In another Nature article, “Climate as a risk factor for armed conflict” (here), the other aspect of the relationship between wars and climate risk is addressed: when conflicts are one of the consequences of global warming. From 3 percent to 20 percent of conflicts in the past century have had among their triggers climate-related factors, and the risk will increase as a result of global warming. Taking into account the assumed worst-case scenario, in which the average temperature rises by 4 degrees, according to Nature, the influence of climate on conflicts could increase by as much as five times, raising the risk of conflict by 26 percent. But even if we manage to limit the increase to 2 degrees, as envisioned by the Paris Protocol, the risk of conflict would increase by 13 percent. A déjà-vu in human history, resource scarcity has always been one of the main causes of wars, and we know that among the consequences of climate change are: desertification, drought, loss of crops and livestock.Of course, the real fear is that we will fight for water and food, but today we still fight also, and especially, for fossil sources, oil, gas. And then, disasters to the environment caused by bombing and other instruments of death. Emergency’s Facebook page reminds us that during conflicts in Asia and Africa up to 90 percent of land vertebrates have been killed directly by war activities; the craters that are left by bombs change the soil, often exposing the surface water table to pollutants that are released during explosions. The best known example is the Vietnam War, because it is estimated that the U.S. military there dropped more than 7 million bombs. These disrupted the landscape and very often it was not possible to restore the previous conditions, restore crops because the surface circulation had been completely disrupted. During the first Gulf War when, following the invasion of Kuwait, the Iraqis blew up 800 oil wells and 600 of these caught fire, and the emissions generated by these fires were estimated to be 3-4% of global emissions that year. In NATO’s bombing of Serbia in 1999, when the Novi Sad refinery was hit, the United Nations estimated that 50,000 tons of oil escaped, some of which burned, some of which went on to contaminate the surrounding land. And the accounting of environmental (as well as human) damage in the Russia-Ukraine war is yet to be written.
All the more reason to be against all wars.
Giuseppe d’Ippolito