Il tema del riconoscimento di forme e condizioni particolari di autonomia per le Regioni ordinarie, ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, si è imposto al centro del dibattito sul rapporto tra Stato e Regioni dopo l’esito non confermativo del referendum sulla riforma costituzionale, anche a seguito delle iniziative intraprese nel corso del 2017 dalle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Attualmente, il testo della riforma, dopo l’approvazione in Senato, è tornato in aula alla Camera per l’esame pregiudiziale. Nel frattempo, la Conferenza delle Regioni ha dato il via libera al progetto di legge per l’autonomia differenziata. Si tratta di una riforma che suscita dibattito, poiché alcuni temono che possa minare la coesione sociale del Paese, favorendo le Regioni più ricche a discapito di quelle meno sviluppate. Vediamo i risvolti di una sua eventuale applicazione sulla tutela ambientale e sull’adattamento e mitigazione dei cambiamenti climatici.

 

La proposta sull’Autonomia regionale differenziata prevede di affidare alle regioni le competenze legislative e amministrative su tutte e venti le materie soggette a legislazione concorrente tra Stato e Regioni e su tre materie di legislazione esclusiva dello Stato. Tra queste, la tutela dell’ambiente. Ma la tutela ambientale e dell’ecosistema è stata, nel 2022, elevata al rango di principio fondamentale costituzionale (art.9 Costituzione) da osservare anche nell’interesse delle future generazioni. Per questo sono già in molti a dubitare che essa possa essere regionalizzata con margini di differenziazione, suscettibili di derogare alle scelte del Parlamento nazionale

.Ma c’è di più. È di tutta evidenza che la tutela dell’ambiente, della natura e degli ecosistemi non può essere ristretta in limiti territoriali. Come se si pretendesse che le alluvioni non superino le frontiere di una singola regione o che i corsi d’acqua abbiano confini delimitati e protetti, per evitare che un’esondazione causata dalla mancata prevenzione in un territorio ne coinvolga altri (peraltro, la stessa protezione civile è materia che si vorrebbe decentrare). O come se la Lombardia pensasse di risolvere da sola il problema dell’inquinamento dell’aria da polveri sottili confinando la circolazione extraregionale dei venti.

E ancora, dalla tutela dell’ambiente dipende la politica climatica che potrebbe diventare non più competenza centralizzata ma affidata ai venti singoli enti territoriali, immaginando come possibile un vero e proprio spezzatino climatico. Le politiche ambientali e climatiche sono questioni globali, che richiedono una cooperazione e una concertazione tra gli Stati e tra i continenti e non si può ipotizzare di decentralizzare decisioni fondamentali per la vita del pianeta, in venti diversi centri decisionali.

Così anche per le strategie energetiche, anche esse regionalizzabili, alla base delle emergenze climatiche se è vero, come è vero, che solo l’eliminazione delle fonti fossili (gas, carbone, petrolio, il cui uso principale è nella produzione energetica) garantisce la progressiva eliminazione dall’atmosfera di quello schermo di gas serra che limita i poteri riflettenti della Terra, provocandone il surriscaldamento. È legittimo allora domandarsi come farà lo Stato italiano a rispettare gli impegni presi alla Cop 28, insieme ad altri 118 Stati, inclusi i 27 Stati membri dell’UE, o al recente G7 di Torino, di triplicare le fonti rinnovabili entro il 2030, eliminando gradualmente i combustibili fossili per accelerare il processo di decarbonizzazione? Se passasse la regionalizzazione differenziata, assisteremmo ad un conflitto perenne tra quelle regioni che già oggi pongono ostacoli all’istallazione di impianti rinnovabili.

Italia, Carta Geografica, Regioni, Stati

Ma, oltre al problema del rispetto degli accordi internazionali, c’è anche quello del rispetto delle numerose direttive a contenuto ambientale dell’Europa. Le direttive UE sono degli atti normativi che vincolano gli Stati membri a raggiungere determinati obiettivi, anche se lasciano loro la libertà di scegliere le modalità e i mezzi per farlo. Quindi, in linea di principio, le regioni potrebbero adottare le misure più opportune per conformarsi alle direttive UE, purché non violino i principi fondamentali del diritto comunitario. Se ciò accadesse, le procedure d’infrazione non tarderebbero ad arrivare (in materia ambientale ce ne sono già una diecina aperte e altre 13 sono state chiuse con la condanna dell’Italia), ma le sanzioni economiche non sarebbero a carico della singola regione responsabile, ma di tutto lo Stato, cioè di tutti i cittadini del Belpaese.

L’Italia è ancora uno dei pochi paesi europei a non avere ancora una legge sul clima che servirebbe a dare un orizzonte, un percorso e degli strumenti di governance per contrastare la crisi climatica e ridurre le emissioni di gas serra. Ma quale governance si prospetterebbe con venti regioni pronte a legiferare ognuna per conto proprio?

Infine, i LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni) di tutela ambientale, determinati partendo da una ricognizione della spesa storica dello Stato in ogni regione. Essi dovrebbero prevedere, tra le altre cose, la qualità dell’aria, dell’acqua e del suolo, la gestione dei rifiuti, la protezione della biodiversità, la prevenzione dei rischi naturali e antropici, la mitigazione e -appunto- l’adattamento ai cambiamenti climatici. Ma vanno considerati gli impegni internazionali, gli orientamenti provenienti dalle diverse componenti istituzionali e sociali del Paese e gli sviluppi normativi e giurisprudenziali che ha avuto la materia della tutela ambientale, anche in sede costituzionale, che ne hanno definito una prospettiva inderogabilmente unitaria.

Appare prevedibile quindi, se il progetto diventasse legge, un continuo esercizio del potere sostitutivo da parte dello Stato e, più in particolare, del governo e si assisterebbe alla legittimazione della sottrazione di rilevanti materie all’intervento parlamentare, sostituito con l’intervento dell’esecutivo. In una parola: un “commissariamento” perenne della tutela ambientale e climatica del paese o, se preferite, il Premierato ambientale.

Allora, a coloro i quali sostengono che è inutile una programmazione di contrasto ai mutamenti climatici nella sola Italia giacché è un paese che produce meno CO2 rispetto all’Europa e l’Europa rispetto al mondo (parzialmente falso) e che le soluzioni sono valide solo se affrontate a livello globale (parzialmente vero), rispondiamo proponendo un italico spezzatino climatico, con ciò che ne conseguirà?

Giuseppe d’Ippolito