«Noi possiamo sopravvivere come specie solo se viviamo in accordo alle leggi
della biosfera che può soddisfare i bisogni di tutti se l’economia globale rispetta
i limiti imposti dalla sostenibilità e dalla giustizia. Come ci ha ricordato Gandhi:
“La Terra ha abbastanza per i bisogni di tutti, ma non per l’avidità di alcune persone”»
(Vandana Shiva, in “Povertà e Globalizzazione”, 2000)

Leggendo i commenti di queste ore sul PIL dell’Italia fermo a zero, sono stato preso dal desiderio di andare a rileggere tesi un po’ datate, deluso da una quotidianità in cui vedo barcollare (e gradualmente, distruggere) principi e valori su cui una parte della mia generazione ha creduto di poter fondare il nostro futuro. E così mi è capitato tra le mani un vecchio, ma non tanto (del 2014), articolo de La Stampa, di Vandana Shiva dal titolo “La crescita economica crea povertà” (lo trovate in rete). Chi è Vandana Shiva? Un’attività ambientale indiana, una dei principali leader dell’International Forum on Globalization, già vice presidente di Slow Food International, nota per le sue battaglie a favore dell’ambiente, di una agricoltura sostenibile e contro gli OGM. Autrice di diversi libri su biodiversità, povertà e globalizzazione, riceve nel 1993 il Right Livelihood Award (Premio al corretto sostentamento) e nel 2013, l’Università della Calabria, gli conferisce la laurea honoris causa in Scienza della Nutrizione. Presente in varie ospitate in trasmissioni televisive italiane tra il 2008 e il 2013 (non ne ricordo altre) e in numerosi docu-film. Oggi completamente dimenticata alle nostre latitudini!

Cosa scriveva nel 2014 Vandana Shiva? Ecco un piccolo, ma significativo, estratto:

I sorprendenti cicli di rinnovamento della natura, come quello dell’acqua, non sono visti come produttivi. Secondo il paradigma della “crescita”, i contadini di tutto il mondo, che forniscono il 72% del cibo, non producono, e le donne che svolgono la maggior parte del lavoro, non lavorano. Una foresta vivente che cresce non contribuisce alla crescita, ma quando gli alberi vengono uccisi, abbattuti e venduti come legname, allora abbiamo crescita. Società e comunità sane non contribuiscono alla crescita, mentre la malattia crea la crescita attraverso gli ospedali e le vendite di medicine brevettate. L’acqua disponibile come bene comune, condivisa liberamente e tutelata da tutti non genera “crescita”, ma quando un’azienda produttrice di bibite gassate crea piantagioni, estrae l’acqua e la mette in bottiglie di plastica, c’è crescita economica.”

 

Era (ed è) il tentativo di proporre l’adozione (o, comunque, la considerazione) di indicatori corrispondenti ad una più familiare nozione di benessere sociale, non sempre riferibili alle valutazioni collegate ai dati strettamente reddituali sviluppati dai rapporti in una società (PIL). Per meglio definirlo, nel 1970 fu coniato dal re del Bhutan il termine FIL (Felicità Interna Lorda). In questo Stato è già da molti anni adottato come indicatore per calcolare il benessere della popolazione e i criteri presi in considerazione sono la qualità dell’aria, la salute dei cittadini, l’istruzione, la ricchezza dei rapporti sociali.

Con la FIL, il concetto di benessere, per la Treccanibasato sul reddito o sul reddito pro capite viene allargato per includere variabili economiche diverse, quali la varianza del reddito pro capite, il numero di ore lavorate, il tasso di disoccupazione. In altre circostanze, il tentativo di misurare il benessere nell’accezione più estesa porta a considerare un insieme ampio di indicatori, come la mortalità infantile, l’incidenza di diverse malattie, la speranza di vita. Vi sono anche tentativi di valutare direttamente il benessere psichico attraverso variabili quali il numero di suicidi, la diffusione dell’utilizzo di psicofarmaci, oppure attraverso indagini presso la popolazione che cercano di stimare il grado di soddisfazione percepito dai cittadini. Le analisi in alcuni casi tendono ad allargare lo spettro dei temi, includendo variabili atte a cogliere il grado di coesione sociale del sistema, come i tassi di criminalità, la presenza di istituzioni democratiche o il rispetto dei diritti civili”.

Il benessere di un popolo è, quindi, una questione complessa e multidimensionale, che non può essere misurata solo con indicatori economici come il PIL. Nel tempo si è perciò pensato, da più parti, a diversi approcci e metodi per valutare il benessere individuale e sociale, che tengano conto di vari aspetti quali la salute, l’istruzione, la qualità della vita, la partecipazione politica, la sostenibilità ambientale e altri. Vi faccio alcuni esempi:

l’Indice di sviluppo umano (ISU): è un indicatore proposto dall’Onu che combina il reddito pro capite, la speranza di vita e il livello di istruzione. L’ISU ha il vantaggio di considerare sia le dimensioni materiali che quelle immateriali dello sviluppo, ma non tiene conto di altri fattori come le disuguaglianze, i diritti umani, la qualità delle istituzioni e l’impatto ambientale.

Il Genuine Progress Indicator (GPI): è un indicatore che cerca di misurare il benessere di una popolazione non solo in base al reddito, ma anche in base ad altri aspetti quali l’ambiente, la salute, l’istruzione, la partecipazione politica e altri. Il GPI tiene conto di fattori ambientali e sociali che non sono misurati dal PIL, come l’inquinamento, la criminalità, le disuguaglianze e altri. Il GPI è calcolato come la somma del PIL corretto per gli effetti negativi sull’ambiente e sulla società, meno i costi sociali come la criminalità e le disuguaglianze, più i benefici sociali come il lavoro domestico e il volontariato.

Il Benessere equo e sostenibile (BES): è un indicatore proposto dall’Istat che si basa su 12 domini e 130 indicatori statistici che coprono vari aspetti del benessere individuale e collettivo. Il BES ha il vantaggio di essere un quadro composito e articolato che riflette la complessità della realtà sociale ed economica, ma richiede una grande quantità di dati e informazioni per essere calcolato e aggiornato.

In Italia, dal 2017, come previsto dalla Legge n. 163 del 4 agosto 2016, un sottoinsieme di 12 indicatori del framework per la misura del Benessere equo e sostenibile (BES) è entrato a far parte, ma solo nominalmente, delle procedure della programmazione economica nazionale. Gli indicatori Istat sono valutati in ben due documenti del Ministero dell’Economia e delle Finanze: l’Allegato sugli indicatori di benessere equo e sostenibile al Documento di economia e finanza (DEF) e la Relazione sugli indicatori di benessere equo e sostenibile, da presentare alle Camere per la trasmissione alle competenti Commissioni parlamentari entro il 15 febbraio di ciascun anno (li trovate, entrambi, sul sito dell’ISTAT e sui siti del Parlamento). Quelli del corrente anno, li ho letti entrambi e, oltre sugli usuali indicatori economici-finanziari, mi sono concentrato sulla misurazione delle emissioni di CO2 e di altri gas climalteranti. Esse non sono calate in modo sensibile, i dati sono del 2021 ma non si stima una diminuzione sostanziale da qui al 2025. La stima è che si passi da 7,2 tonnellate equivalenti pro capite a 7,0 tonnellate eq. pro capite. Il dato del 2021 indica un aumento rispetto al 2020 (+0,4 tonnellate eq. pro capite).

Continueremo con l’inquinamento dell’aria, con l’attentato alla salute umana e con l’aggravamento delle condizioni di mutamento climatico. Vi sentite più felici adesso che lo sapete? Domandatevi perché questi dati non trovano spazio sui media, nei più popolari talk show televisivi, non sono mai oggetto di sondaggi specifici e, da ultimo, non generano nessuna conseguenza nella programmazione economica delle varie leggi di bilancio.

Se adottassimo, insieme al PIL, anche una FIL fondata su indicatori come l’inquinamento dell’aria, la tutela degli ecosistemi, lo stato dell’agricoltura, i diritti sociali come la salute, l’istruzione, la solidarietà, la tutela delle età deboli e altri, non saremmo ben sotto lo zero?

Giuseppe d’Ippolito