I pesci pescati nell’Oceano Pacifico arrivano quotidianamente
sulle tavole italiane, mentre in quelle acque vengono sversati
i liquidi di trattamento di mille serbatoi distrutti nell’incidente
alla centrale nucleare di Fukushima. Il Giappone rassicura, la
Cina blocca l’importazione del pescato in quell’oceano.
Chi seguire?

Come annunciato dal Governo giapponese la scorsa settimana, nonostante le proteste dei Paesi vicini per le possibili conseguenze sull’ambiente e dei pescatori locali preoccupati per la reputazione dei loro prodotti, il Giappone ha dato inizio allo scarico delle acque contenute nelle cisterne della centrale nucleare di Fukushima nell’Oceano Pacifico.
A prendere la decisione di riversare in mare il contenuto degli oltre mille serbatoi andati distrutti nel tremendo incidente che nel 2011 devastò la centrale nucleare di Fukushima è stata la società gestore della centrale, la Tokyo Elecrit Power, la quale ha tentato più volte di rassicurare che i circa 1,34 milioni di tonnellate di acqua trattata saranno diluiti nel mare osservando i limiti consentiti dalle norme sulla sicurezza giapponese. E il ministero dell’Ambiente giapponese ribadisce: “Le concentrazioni di trizio sono infatti su livelli di 7-8 becquerel al litro (Bq/l), sufficientemente bassi da non causare impatti negativi sulla salute umana e sull’ambiente”.

Molto critica la Cina, la quale dall’annuncio del Governo nipponico in merito alla situazione di Fukushima ha commentato la notizia come una “decisione estremamente egoista e irresponsabile”, promettendo di bloccare tutto l’import ittico dei frutti di mare introducendo dei test nucleari su tutti i prodotti provenienti dal Giappone. “Al fine di prevenire in modo completo i rischi per la sicurezza alimentare derivanti dalla contaminazione radioattiva causata dal rilascio in mare delle acque reflue nucleari di Fukushima, proteggere la salute dei consumatori cinesi e garantire la sicurezza degli alimenti provenienti dall’estero” si legge in una nota diffusa dalla Dogana. Sin qui la cronaca spicciola come riferita dal sito eurocomunicazione.eu.

Noi intendiamo mettere in rilievo una considerazione, valida sia per i danni ambientali sia per i rischi per la sicurezza alimentare: il valore delle soglie o limiti di legge.

Siamo pieni, nella nostra quotidianità, di limiti di legge: per misurare la qualità dell’aria; per l’inquinamento elettromagnetico; per l’inquinamento dell’acqua; per misurare la nostra velocità per strada; per definire il rischio microbiologico degli alimenti; i limiti soglia per gli appalti; e così via. La verifica di tali limiti è sempre rimessa a personale, pubblico o privato, qualificato, con l’ausilio di analisi e strumentazione tecnica, chimica, meccanica o, più spesso, elettronica e di una regolamentazione tecnica (direttive comunitarie, norme di legge, di regolamenti, norme obbligatorie e/o volontarie) praticamente sconfinata.

È evidente, però, che non tutte le soglie hanno lo stesso valore: da alcune dipendono i comportamenti virtuosi con le relative conseguenze e le valutazioni di legittimità e/o impunità; altre possono costituire una limitazione ad iniziative economiche; ma altre sono un presidio per la stessa salute umana o, addirittura, per la sopravvivenza degli ecosistemi. Il ché fa nascere una serie di problemi con implicazioni diverse:
1.- l’errore umano
2.- il malfunzionamento dello strumentario
3.- l’impossibilità degli strumenti, nell’attuale fase di evoluzione tecnologica, di misurare al di sopra o al di sotto di un determinato limite
4.- la consuetudine, ancora molto in voga, a considerare permesso tutto ciò che non è espressamente vietato<
5.- la fraudolenta possibilità che uno o più limiti siano volontariamente, dolosamente e illegalmente, modificati da chi ha la possibilità di misurare o determinare (ci domandiamo per esempio quanto siano trasparenti e autonomi i processi che portano a determinare limiti o soglie dai quali, dipendono il ridimensionamento o la stessa sopravvivenza di aziende o imprese).

Nel tentativo di evitare pericolosi vuoti normativi determinati dall’eccessiva frammentazione regolamentare e per proporre un bilanciamento tra le esigenze dello sviluppo e quelle della salvaguardia ambientale, nella Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 venne ratificata la Dichiarazione di Rio, contenente una serie di principi condivisi dalle 180 delegazioni governative. A noi interessa il principio nr. 15, ormai universalmente noto come “principio di precauzione”, che reca:

«Al fine di proteggere l’ambiente, un approccio cautelativo dovrebbe essere ampiamente utilizzato dagli Stati in funzione delle proprie capacità. In caso di rischio di danno grave o irreversibile, l’assenza di una piena certezza scientifica non deve costituire un motivo per differire l’adozione di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il degrado ambientale»

Il testo parla esplicitamente solo della protezione dell’ambiente, ma con il tempo e nella pratica il campo di applicazione si è allargato alla politica di tutela dei consumatori, della salute umana, animale e vegetale. Lo si ricava dalla ratifica della Dichiarazione di Rio da parte dell’Unione europea che ha poi precisato (comunicazione della Commissione 2 febbraio 2000):

«Il fatto di invocare o no il principio di precauzione è una decisione esercitata in condizioni in cui le informazioni scientifiche sono insufficienti, non conclusive o incerte e vi sono indicazioni che i possibili effetti sull’ambiente e sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante possono essere potenzialmente pericolosi e incompatibili con il livello di protezione prescelto».

Infine con il Trattato di Maastricht è stato ribadito il principio di precauzione (poi ripreso dalla Costituzione Europea) attualmente enunciato all’art. 191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, dove si sostiene che

La politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela ed «è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente e sul principio “chi inquina paga”».

Tornando a Fukushima, è la legge giapponese che sancisce che l’acqua sversata dalla centrale nucleare, non è radioattiva, non danneggia l’ambiente, non rappresenta un pericolo per le specie ittiche destinate al consumo alimentare. Ma c’è chi la contesta. Siamo quindi nel campo dell’opinabile (anche se forse, in questo caso, dettato più da ragioni politiche che di merito), ma comunque, per dirla con la UE siamo “in condizioni in cui le informazioni scientifiche sono insufficienti, non conclusive o incerte”. Di fatto, però, un cittadino che consuma pesce in Cina o Corea sarà a minor rischio di uno statunitense o di un europeo.

L’Ambiente è un concetto globale, ma le abitudini alimentari sono essenzialmente locali, in un mercato globale: infatti consumiamo tonno e altri pesci pescati proprio nell’Oceano Pacifico.

Che fare, allora? Il dibattito è aperto.

 

 

 

English version
Fukushima water in the sea: a problem for the environment and food safety?
As announced by the Japanese government last week, despite protests from neighbouring countries about the possible consequences for the environment and from local fishermen worried about the reputation of their products, Japan has started to discharge the water contained in the tanks of the Fukushima nuclear power plant into the Pacific Ocean. The decision to pour into the sea the contents of the more than 1,000 tanks destroyed in the horrendous accident that devastated the Fukushima nuclear power plant in 2011 was taken by the plant’s operator, Tokyo Elecrit Power, which has repeatedly attempted to reassure that the approximately 1.34 million tonnes of treated water will be diluted in the sea, observing the limits allowed by Japanese safety regulations. And the Japanese Environment Ministry reiterates: ‘Tritium concentrations are in fact at levels of 7-8 becquerels per litre (Bq/l), low enough not to cause negative impacts on human health and the environment’. China, which has been very critical of the Japanese government’s announcement regarding the Fukushima situation, has commented on the news as an ‘extremely selfish and irresponsible decision’, promising to block all seafood imports by introducing nuclear tests on all products from Japan. ‘In order to comprehensively prevent food safety risks from radioactive contamination caused by the release of Fukushima nuclear waste water into the sea, protect the health of Chinese consumers and ensure the safety of food from abroad,’ reads a note issued by Customs. Up to this point, we have the bare facts as reported by the eurocomunicazione.eu website. We would like to highlight one consideration, valid for both environmental damage and food safety risks: the value of thresholds or legal limits. We are full, in our daily lives, of legal limits: to measure air quality; for electromagnetic pollution; for water pollution; to measure our speed in the street; to define the microbiological risk of food; threshold limits for procurement; and so on. The verification of these limits is always entrusted to qualified personnel, public or private, with the help of analysis and technical, chemical, mechanical or, more often, electronic instrumentation and technical regulations (EU directives, laws, regulations, mandatory and/or voluntary standards) that are practically boundless. It is clear, however, that not all thresholds have the same value: virtuous behaviour with its consequences and assessments of legitimacy depend on some; others may constitute a limitation on economic initiatives; but others are a safeguard for human health itself or, even, for the survival of ecosystems. This gives rise to a series of problems with different implications:

1.- human error
2.- instrument malfunctioning
3.- the inability of instruments, in the current phase of technological evolution, to measure above or below a certain limit
4.- the custom, still very much in vogue, of considering as permitted everything that is not expressly forbidden
5.- the fraudulent possibility that one or more limits may be voluntarily, maliciously and illegally altered by those who have the possibility of measuring or determining them (we wonder, for example, how transparent and autonomous are the processes that lead to determining limits or thresholds on which the downsizing or even the very survival of companies or enterprises depend). In an attempt to avoid dangerous regulatory gaps caused by excessive regulatory fragmentation and to propose a balance between the needs of development and those of environmental protection, At the Rio de Janeiro Conference in 1992, the Rio Declaration was ratified, containing a set of principles shared by 180 governmental delegations. We are interested in principle 15, now universally known as the ‘precautionary principle’, which states: “In order to protect the environment, a precautionary approach should be widely used by States according to their capabilities. Where there is a risk of serious or irreversible damage, the absence of full scientific certainty must not be a reason for postponing the adoption of appropriate and effective measures, including cost-effective measures, to prevent environmental degradation”. The text speaks explicitly only of environmental protection, but over time and in practice the scope has widened to include the protection of consumers, human, animal and plant health. This can be seen from the ratification of the Rio Declaration by the European Union, which then specified (Commission Communication of 2 February 2000): ‘Whether or not to invoke the precautionary principle is a decision exercised in conditions where scientific information is insufficient, inconclusive or uncertain and there are indications that the possible effects on the environment and the health of humans, of animals and plants may be potentially dangerous and incompatible with the chosen level of protection’. Lastly, the Maastricht Treaty reaffirmed the precautionary principle (later taken up by the European Constitution), which is currently set out in Article 191 of the Treaty on the Functioning of the European Union, which states that the Union’s policy on the environment aims at a high level of protection and “is based on the precautionary principle and on the principles that preventive action should be taken, that environmental damage should as a priority be rectified at source and that the polluter should pay”. Going back to Fukushima, it is Japanese law that states that the water spilled from the nuclear plant is not radioactive, does not harm the environment, and does not pose a danger to fish species for food consumption. But there are those who dispute it. We are therefore in the realm of the debatable (although perhaps, in this case, dictated more by political reasons than by merit), but in any case, as the EU puts it, we are ‘in conditions where scientific information is insufficient, inconclusive or uncertain’. In fact, however, a citizen consuming fish in China or Korea will be at less risk than an American or a European.
The environment is a global concept, but eating habits are essentially local, in a global market: in fact, we consume tuna and other fish caught right in the Pacific Ocean.
What to do, then?
The debate is open.