Nel mondo, il 70% della produzione alimentare è sostenuta da piccoli
produttori agricoli, i quali sono abbandonati (se non avversati) dalle
politiche dei governi. Le politiche sono fatte a vantaggio delle società
multinazionali che muovono grandi capitali e sviluppano a loro volta gli
appetiti delle classi dirigenti locali. Le politiche di modernizzazione
espellono contadini e creano profitti con brevetti o con l’appropriazione
(indebita) del patrimonio genetico locale, brevettando piante “native”
che diventano proprietà di società internazionali

Nel corso di questa settimana si è svolto il Summit FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) avente l’obiettivo “fame zero”. Il fatto rimarchevole è che per la prima volta (mi sembra) vi sia un legame esplicito e diretto tra la situazione degli indigenti, la produzione alimentare e i cambiamenti climatici.  Lasciando da parte lo scetticismo che potrebbe suscitare lo slogan utilizzato per il Summit (più adatto ad una bibita o una merendina), quello che mi colpisce di queste ricorrenti riunioni, dopo tanti anni di esperienza, è la loro vuota ritualità. La sostanza è stata già decisa, e risiede nel fondo finanziario stanziato per svolgere interventi sostenuti da Stati e enti privati. Non tutti i giochi sono stati decisi a priori ma, a meno di colpi di scena, il cerimoniale prefissato sancirà le priorità per i prossimi anni e comunque modificabili, a dispetto dell’autonomia delle istituzioni, unicamente da parte di “chi conta”, cioè i G7 e in parte i G 20, sapendo che, dopo le elezioni presidenziali in USA e quelle per il parlamento della UE, saranno i nuovi governi a decidere eventuali modifiche.  La guerra in Ucraina è il “convitato di pietra” di questi incontri, con maggiore peso di quanto lo abbiano avuto sino ad ora tutte le altre guerre, anche per l’embargo e per le ritorsioni connesse che bloccano il commercio dei cereali.

Seguo la questione alimentare da quando mi sono laureato. Ho seguito nel 1996 il “Summit mondiale sulla sicurezza alimentare”, che vide dal 13 al 17 novembre a Roma capi di Stato e di Governo di tutti i Paesi aderenti alla FAO delineare le strategie future dell’organizzazione e dare ai singoli governi indicazioni generali per formularne di proprie. Quel vertice produsse un piano articolato in sette punti, finanziato da una campagna decennale dal titolo roboante: “Cibo per tutti”. Dopo la fine dei blocchi, quell’incontro rappresentava il lancio concreto in campo agroalimentare del WTO (Organizzazione mondiale del commercio), dopo che nell’accordo GATT (Accordo generale sulle tariffe e il commercio), siglato qualche anno prima. era stata inserita l’agricoltura nel sistema di regole commerciali globali. Aggiungo che allora ci fu l’importante innovazione di inserire le ONG (Organizzazioni non governative) nel sistema di relazioni, con un ruolo nella preparazione dei documenti e nell’interlocuzione con la FAO e, accanto alla “sicurezza alimentare” (intesa come garanzia di cibo per tutti), entrò nel vocabolario il concetto di “sovranità alimentare” attraverso l’organizzazione Via Campesina che lo definì.

Nel mondo, il 70% della produzione alimentare è sostenuta da piccoli produttori agricoli, i quali sono abbandonati (se non avversati) dalle politiche dei governi. Le politiche sono fatte a vantaggio delle società multinazionali che muovono grandi capitali e sviluppano a loro volta gli appetiti delle classi dirigenti locali (ad es., in paesi come la Tanzania l’economia locale dell’area dei Masai viene stravolta con l’espulsione delle popolazioni native per fare posto ad un grande progetto di “parco naturale”, in realtà un area un investimento dei Paesi del Golfo per creare luoghi di turismo e di “safari” ad uso e consumo della jet society; inutile aggiungere che sono investimenti che aggravano la condizione alimentare e sociale delle popolazioni).

Le politiche di modernizzazione espellono contadini e creano profitti con brevetti o con l’appropriazione (indebita) del patrimonio genetico locale, brevettando piante “native” che diventano proprietà di società internazionali; non per caso solo una “marcia per la terra” fatta da decine di migliaia di piccoli contadini ha impedito in India il varo di una riforma che avrebbe dovuto risollevare la crescita del comparto agricolo  che stagna intorno a un misero +1,8 % (metà di quanto registrato nella precedente amministrazione dell’Indian National Congress) mentre le entrate dei contadini sono mediamente in caduta libera, costringendo chi può a ricorrere all’indebitamento, sperando in un raccolto generoso. Ma tra siccità e terapie shock come la demonetizzazione del 2016 – con annesso credit crunch – ai contadini non è rimasto altro che protestare contro le istituzioni, chiedendo meccanismi che fissino un prezzo minimo di vendita dei prodotti agricoli e la cancellazione di debiti contratti con gli istituti bancari locali.

Di questo in genere di situazioni non si parla nei Summit dove spesso regna la mistificazione che trasforma politiche di rapina in interventi di presunta difesa dell’ambiente e sostegno alimentare.

In Italia e nella UE non siamo da meno. Della massa di agricoltori (grandi, medi, piccoli, piccolissimi, saltuari), quelli riconosciuti come tali dalla PAC (Politica agricola comune) sono un terzo del totale; tra loro nel 1990 il 20% riceveva l’80% dei contributi comunitari: dopo trent’anni di riforme continue fatte per sottrarre le garanzie sino ad allora applicate e far fluttuare i mercati alimentari come quelli finanziari, le percentuali di flussi monetari restano immutate.

Certo non basterà cambiare la denominazione ad un Ministero per modificare questa situazione, specie se si affida al made in Italy la gestione della sovranità alimentare. Il made in Italy è costituito dalle grandi società italiane che sviluppano brand ed immagine nel mondo e sono tra le cause dell’attuale situazione di crisi generale del sistema alimentare. Gli ingenui potrebbero pensare che la nostra sovranità alimentare dipenda dal made in Italy; ma per fare la pasta che si diffonde sulle tavole del pianeta e vendere le farine che sostituiscono le produzioni locali, certamente non servono le produzioni italiane (spesso insufficienti persino al fabbisogno nazionale o europeo), ma sono necessarie le coltivazioni dei terreni sottratti alle produzioni locali o, meglio, abbandonati per fare spazio a prodotti fabbricati con le farine dei “granai del mondo”, di cui uno è l’Ucraina. La fine dell’accordo Russia-Turchia per la vendita del grano ucraino ha rappresentato il mancato approvvigionamento di questa filiera che vede alimentarsi a basso prezzo e con farine mediocri i poveri di tutte le società, compresa quella italiana.

Non ho fiducia nei risultati del vertice, ma penso che sia necessaria una costante informazione trasparente sui mercati mondiali.

Quanto più separiamo l’agricoltura dalla finanza, tanto più il mondo avrà una possibilità di costruire la sopravvivenza al cambiamento climatico. Ma di questo parleremo una prossima volta.         

Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti

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AGGIORNAMENTO

Si è chiuso, il 26 luglio, il vertice Onu sui sistemi agroalimentari. Capi di stato, ministri, organizzazioni internazionali e non governative presenti al massimo livello nella sede della Fao di Roma. Convitato di pietra: l’Ucraina e la battaglia per il grano.
Non è arrivata alcuna risposta ai numerosi problemi che pur sono stati evidenziati con parole tanto forti quanto di circostanza.
Mentre la crisi alimentare globale è sempre più vicina, non è stata individuato uno strumento per di impedire quanto sta succedendo: il grano è una merce come le altre. In pratica si è preso semplicemente atto che è il mercato, in base alle sue dinamiche, a regolare i prezzi. Via libera, quindi, alle speculazioni divenute fatto normale. Nessuna proposta neppure sull’evidenza della circostanza che con queste dinamiche la prima ad essere colpita è la fascia più vulnerabile della popolazione, sia nei paesi ricchi che in quelli meno più poveri. Ci si dimentica l’essenzialità del cibo per la sopravvivenza.