La nuova proposta UE per l’abolizione delle confezioni monouso
delle verdure inferiori a 1,5 Kg provoca discussioni. C’è l’assenza di visione
strategica in quanti vedono allarmati il futuro privo di plastica o con bottiglie
di vetro più “leggere”. Pensiamo a tutelare anzitutto la salute e l’alimentazione
attraverso il ripristino di condizioni energetiche “sostenibili”

 Il nostro settore agroalimentare soffre, cioè è vittima, della “sindrome d’accerchiamento” manifestatasi recentemente con la notizia del “pericolo di scomparsa dell’insalata monodose” a causa della prevedibile limitazione che imporrebbe la nuova proposta di regolamento sugli imballaggi.

Infatti, la proposta, finalizzata a standardizzare i confezionamenti nella logica della riduzione dei consumi di materie prime e del riciclo del materiale di risulta, giudicherebbe superflue le confezioni inferiori a 1,5 kg, eliminando – di fatto – le confezioni monouso. Non solo ma secondo alcuni, nel percorso di standardizzazione, la regolamentazione danneggerebbe oltre al settore ortofrutticolo anche quello del vino, poiché ridurrebbe il peso del vetro delle bottiglie e, standardizzandone il formato, eliminerebbe quei formati magnum o altri che rappresentano consumi d’élite e di nicchia. Infine, per il processo di riuso che dovrebbe orientare sempre più il settore verso una economia sostenibile e circolare, la percentuale di prodotto riciclato dovrà aumentare sempre più portando, in tappe progressive, nel 2040 ad un utilizzo di materiale riciclato almeno del 25%.  

L’agroalimentare italiano rappresenta circa il 4,3 % del PIL nazionale (oltre il 10% considerando l’intero indotto) – dati 2020 -, consistente per una buona fetta in prodotti da esportazione. I dati del 2022, relativi ai soli settori ora citati, segnalano un valore dell’export di 8 milioni di € per il vino, per l’ortofrutta 5,7 miliardi e 4,8 miliardi per la parte dell’ortofrutta trasformata. Con tali valori esso rappresenta uno dei pilastri dell’economia della UE e, per quanto possa essere vivace la concorrenza con i corrispondenti settori spagnoli e francesi, è improbabile che una normativa comunitaria miri alla sua “distruzione”.

Piuttosto l’allarme è relativo al sistema d’impresa ed alle strutture che lo guidano che deve cambiare, pena il suo ridimensionamento. Insomma, il problema riguarda un settore che, per citare un esempio, non dovrebbe seguire la scia dell’Alitalia, azienda che negli anni di aumento del traffico aereo e del turismo, non fu in grado di rinnovarsi e intercettare questi flussi, riducendosi come è ora, partner locale di altra azienda con strategie planetarie. Le risorse (acqua, terra, energia) e le materie prime, tutte limitate ed in progressivo esaurimento, spingono a riconsiderare i cicli produttivi in tutti i settori e dovrebbe spingere ancor più in quello agricolo e in quello alimentare, settori attraverso cui noi possiamo imprimere un orientamento al cambiamento climatico. Per farlo bisogna cambiare le nostre abitudini. 

 Così come all’inizio degli anni Novanta le indagini di settore segnalavano l’affermarsi di nuove abitudini alimentari, con la diffusione dei prodotti precotti e quelli confezionati in piccole dosi, oggi, dopo la pandemia, si sono diffuse nuove abitudini alimentari e comportamenti di vita. Se uniamo queste riflessioni alla necessità di allungare la vita dei prodotti, utilizzare le materie seconde, adattarsi ai nuovi trends nel comportamento alimentare, possiamo meglio capire la scelta della Commissione UE di proporre un regolamento che organizzi tutto ciò nel settore degli imballaggi.

C’è da riflettere sull’assenza di visione strategica in quanti vedono allarmati il futuro prossimo privo di piccoli imballaggi di plastica o con bottiglie di vetro più “leggere”. Dobbiamo ricordare che, mentre il vetro è un materiale più facilmente riciclabile, la plastica è la croce e delizia della nostra epoca.

Perché la maggior parte degli imballaggi, delle bevande e dei cibi che consumiamo vengono prodotti in plastica? Perché non vengono utilizzati altri materiali con maggiori caratteristiche di sostenibilità ambientale? Perché la plastica, meglio dire le plastiche, come consigliato dalla IUPAC (Unione internazionale di chimica pura e applicata) presentano una combinazione di proprietà tali da rendere il materiale estremamente versatile e a basso costo. Flessibilità, resistenza meccanica, trasparenza e stabilità si aggiungono alla capacità della plastica di non influire (in apparenza e a determinate condizioni) sulle proprietà organolettiche e sulla qualità dei cibi: un vero e proprio effetto barriera. Fu considerata la soluzione finale del problema conservazione, senonché quello che si dimostrava un pregio era anche il suo pericolosissimo limite perché le proprietà davano al materiale una prolungata stabilità nel tempo.

Le plastiche sono materiali organici a elevato peso molecolare, cioè costituite da molecole con una catena molto lunga (macromolecole), che determinano in modo essenziale il quadro specifico delle caratteristiche dei materiali stessi”. Definizione inquietante, perché perfettamente adatta a descrivere il vivente. Ed in questa inquietante sovrapposizione vi è tutto il problema che oggi dobbiamo affrontare nel trattare la plastica e la sua diffusione. L’aspetto comune dato dalle proprietà similari che, accanto alla diffusione, ne disegnano la grande pericolosità è che le plastiche sono tutte, in diverse condizioni, liposolubili, idrosolubili e solubili nell’alcool.  Assomigliano troppo a noi perché possiamo liberarcene facilmente. Sembrano non influenzare le qualità dei prodotti, ma se messe a contatto prolungatamente ed in condizioni particolari, li contaminano.

Le microplastiche ottenute dalla dispersione nell’ambiente dei materiali, grazie alla loro alta “plasticità”, entrano nell’intima struttura del vivente in modo incontrollato, con conseguenze non ancora ben conosciute e studiate. Questo aspetto, unito alla pericolosità per i viventi della quantità dei prodotti in plastica dispersi, rende particolarmente importante i problemi che si dovranno affrontare nel tentare di dare soluzione: 1) la riduzione dell’utilizzo di questi materiali; 2) il loro riciclaggio totale; 3) la biodegradabilità al 100%.

Anche il riciclaggio, aspetto a cui vengono dedicate normative specifiche e dettagliate, risulta costoso e richiede grandi disponibilità di materiale per raggiungere soglie economiche convenienti e un notevole consumo di energia. Tutti i problemi, infine, sono conseguenti alla non sostenibilità dei sistemi di produzione e di consumo utilizzati nei diversi cicli produttivi. Il ciclo specifico della plastica comporta l’uso di grandi quantità di combustibili fossili ed ha implicazioni negative non solo per l’ambiente ma anche per il cambiamento climatico. Se la produzione e l’uso di materie plastiche, osserva l’AEA, continueranno ad aumentare come previsto, l’industria della plastica rappresenterà il 20% del consumo globale di petrolio entro il 2050, con un aumento rispetto all’attuale 7%. I dati dell’inventario dei gas a effetto serra dell’AEA mostrano che le emissioni annue legate alla produzione di plastica nell’UE ammontano a circa 13,4 milioni di tonnellate di CO2, cioè circa il 20 % delle emissioni dell’industria chimica in tutta l’UE.

Dinanzi a questi numeri risulta, francamente risibile sollevare il problema delle monodosi e delle confezioni di ortaggi, molte delle quali già ora vedono la presenza nel confezionamento di materiali derivati da piante (mais, canapa, ecc.) e non da petrolio. Se leggete molte etichette d’imballaggio troverete che i film plastici utilizzati vanno nell’organico (sono biodegradabili) e i contenitori nel cartone. E se vogliamo delle monodosi, possono benissimo essere fatte al momento dal punto vendita; un po’ più di tempo, più lavoro ma meno inquinamento, il cui costo supera quello delle azioni sostitutive ora descritte.  

Se dovremo impegnare le grandi risorse finanziarie in arrivo, facciamolo per tutelare anzitutto la salute e l’alimentazione nostre e degli altri viventi, e facciamolo attraverso il ripristino di condizioni energetiche “sostenibili”. Frasi banali, che però aprono un gran numero di prospettive, soprattutto se pensiamo che questi risultati possiamo ottenerli attraverso sistemi di commercializzazione a minore impatto energetico, cioè avviando una economia circolare. In quanto alle abitudini, la pandemia ha aperto una nuova strada per l’umanità. Ci ricordava Serge Latouche nel 2013: “Oggi la popolazione di Detroit è passata da circa due milioni a meno di settecentomila abitanti. Che cosa è successo? La gente non è sparita, non è stata massacrata: molti sono andati altrove, quelli rimasti hanno riconvertito la zona centrale di Detroit in orti urbani…. È un’altra civiltà che nasce. Probabilmente succederà lo stesso a Parigi, a New York, sarà un cambiamento forte ma che avverrà a poco a poco.” 

Noi lo stiamo vedendo ed invitiamo a farlo con noi anche quanti temono che con le loro paure possa anche sparire la nostra agricoltura. Tranquilli, non succederà!

Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti

 

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