Dal pomeriggio del 15 febbraio, giornata di lotta che ha visto
diverse manifestazioni nella capitale, i trattori sembrano
diventati un elemento del panorama italiano, sistemati nei
diversi punti nevralgici della rete stradale. I presidi si sono
moltiplicati, le organizzazioni che li effettuano anche
(mostrando una progressiva divisione ma anche un protagonismo
delle realtà locali), tutti a chiedere un incontro con il ministro
nella ricerca di un’interlocuzione che sembra comunque vana.

Quello che poteva dare il governo, a mio parere, lo ha dato con la finanziaria e le richieste non potranno trovare soddisfazione (se non in piccoli riconoscimenti) se non verranno articolate alleanze e sostegno duraturi. D’altra parte, ai dieci punti del programma di lotta iniziale, nel corso dei giorni si sono sostituite diverse piattaforme che, invece di chiarire le alternative, le hanno confuse aggiungendo dettagli. Se questi ultimi servivano a far identificare l’associazione che le proponeva, non approfondivano i motivi della lotta. Il risultato è stato che gli agricoltori, senza alcuna distinzione tra di essi, ricevono una generica solidarietà tra la popolazione che vorrebbe spendere di meno per gli alimenti e consumare alimenti locali di migliore qualità ma che, senza avere alternative concrete, spende in base alle proprie possibilità. La situazione che si riscontra è la ricerca di un prezzo migliore per tutti: gli agricoltori puntano così a produrre per l’esportazione o per consumi “di nicchia” (prodotti dietetici, biologici o di alta qualità) che spuntano sui mercati prezzi migliori ed i consumatori acquistano quello che possono permettersi, in buona parte prodotti mediocri a basso prezzo e d’importazione, con buona pace della propaganda sul “Made in Italy”.
La richiesta di sostegno degli agricoltori non può limitarsi all’appello e l’apporto dei consumatori non potrà avvenire senza darsi delle basi comuni di azione. La prima base comune necessaria è una convergenza sul prezzo, tra quello che i consumatori possono pagare e il reddito che gli agricoltori chiedono come compenso alle loro fatiche. Questo è il punto chiave che ancora le piattaforme non affrontano e che difficilmente entrerà nelle trattative ufficiali, perché mette in discussione le basi del cosiddetto “libero mercato” e le regole che la Politica Agricola Comune (PAC) si è data dopo la riforma Mac Sharry, accettando di entrare nel sistema di mercato internazionale. Serve chiedere una riforma della PAC che ripristini alcuni criteri abbandonati, cioè il lavoro necessario alle produzioni e la tutela del prezzo alla produzione rispetto ai costi, tutelando in tal modo il reddito, e chiedere un prezzo di mercato al consumo che sia giusto per chi acquista.

Per tornare alle richieste, confrontando le attuali diverse piattaforme con gli iniziali 10 punti di programma, è evidente il ridimensionamento delle critiche all’ambientalismo, superate dai reali problemi di crisi economica e di costi di produzione insostenibili. Il tanto criticato Green Deal è restato solo sulla carta e il prossimo Parlamento Europeo avrà altre priorità, a partire dalle guerre da chiudere e dalla ricostruzione da avviare in Ucraina e in Palestina, senza parlare delle trasformazioni industriali e dell’incombente crisi climatica che si preferisce affrontare come problema di sicurezza e ordine pubblico (lotta contro i migranti, assicurazioni e compensi per i danni da catastrofi, controllo della fauna e della flora selvatiche che sembrano essere i nemici da combattere e non i serbatoi di risorse da valorizzare).
Ma la tutela dell’ambiente e l’utilizzo di mezzi poco inquinanti non sono aspetti estranei alla formazione del prezzo alla produzione ed ai costi aziendali. Chi tra gli agricoltori ha ridotto l’uso di mezzi tecnici e ha praticato l’agroecologia non ha vissuto le costanti crisi degli altri comparti del settore; in particolare chi ha praticato il biologico, superata la fase iniziale di necessaria riconversione, ha vissuto del proprio reddito meglio di quanti hanno rincorso gli incrementi produttivi e l’ammodernamento costante delle strutture.

Verrebbe da chiedersi se la teoria del mercato che fa della tutela dell’ambiente oggetto di profitto non sia parte integrante del sistema di rovina del mondo contadino e che gli agricoltori siano stati spinti a criticare la dimensione ambientale per evitare che le critiche si rivolgessero all’industria che domina le campagne.  La lotta ai parassiti, finita – in fondo – con la sconfitta della tecnica che li ha visti sempre ritornare sotto forme nuove, è l’esempio concreto di come i territori con monocolture (spesso monoclonali) siano la grande tavola imbandita per il banchetto dei parassiti delle piante e per quello del sistema industriale che fornisce i mezzi di produzione e distribuisce i prodotti al consumo.

In Francia, territorio che sembra ora meno coinvolto nella rivolta che scuote il continente, il dibattito sulla trasformazione dell’agricoltura da contadina a industriale ha antiche origini: Henry Mendras nel 1967 scrisse un saggio dal titolo significativo, “La fin des paysans” (La fine dei contadini). In questo saggio sin dagli anni Sessanta si punta il dito contro la continua modernizzazione del settore agricolo e l’abbandono dei cicli produttivi come base per una corretta alimentazione, cioè arrivare ad un’agricoltura senza coltivatori, ad una società senza storia e passato, che invita a produrre per consumare sempre più .

In quanto ai contenuti delle piattaforme, Dario Casati, in un intelligente articolo dal titolo sarcastico “La grande guerra dei trattori è finita a Sanremo” pubblicato sul sito dell’Accademia dei Georgofili, ne coglie i tre aspetti fondamentali su cui esse si muovono: gli obiettivi commerciali, gli obiettivi economici e la cosiddetta “questione del giusto prezzo”. Se gli aspetti dell’analisi ci vedono in grandi linee concordi, le ragioni della ribellione contadina nel mondo meriterebbero un maggiore approfondimento: non è utile salvare i conduttori della traballante macchina agricola europea, italiana in particolare, per il loro apparente senso di responsabilità, senza parlare della fine delle rappresentanze ridotte a uffici di contabilità e consulenza aziendale e la mancanza di idee di chi governa l’agricoltura.

Ma è nel “giusto prezzo” che vi è la chiave per aprire alla società una lotta oggi limitata al settore agricolo. Casati nel suo articolo individua il concetto di “giusto” come etico e non economico, riponendo nel prezzo di mercato, frutto della libera concorrenza, il momento in cui il prezzo diventa giusto per acquirente e venditore. A questa visione è necessario aggiungere quegli aspetti che fanno dell’agricoltura non solo lo strumento di produzione degli alimenti, ma anche lo strumento per la riqualificazione dell’ambiente e la lotta al cambiamento climatico, includendo nel prodotto quegli aspetti sociali ed ambientali che la rendono più simile ad un servizio che a un luogo di produzione. Altrimenti la formazione del prezzo si riduce ad un gioco delle parti senza tempo e senza storia.  Non a caso l’ACU ha lanciato lo slogan “prezzo giusto – giusto reddito”, dove il prezzo giusto è determinato in gran parte dalla capacità della domanda (non quella aggregata analizzata da Keynes, ma quella dei consumatori che vivono in una specifica società, in un tempo determinato, hanno una memoria ed una storia) ed il giusto reddito è determinato in gran parte dalla offerta (anch’essa non astratta, ma costituita da produttori con cultura, storia, memoria riversata nelle produzioni). Non esistono confini netti tra prezzo e reddito e la loro determinazione è frutto del patto sociale a cui sono legati e del livello di democrazia che esso esprime. Oggi è saltato il patto sociale che ha trasformato i contadini in ingranaggio di una società industriale che chiedeva alimenti per il mercato (in quantità sempre maggiori e di qualità sempre minore) offrendo benessere (spesso limitato a pochi). È necessario ricostruire il patto sottraendo al mercato l’agricoltura che è un fatto sociale, un servizio che produce alimenti ma anche altro non meglio quantificabile in valore monetario. Come servizio, essa è destinata a realizzare il “fallimento del mercato”, come viene definito in economia il risultato ottenuto applicando ai servizi le politiche di mercato.

Ma anche se volessimo limitarci al valore della produzione dal punto di vista dei consumatori, si dovrebbe partire dal bisogno umano di nutrienti (vedi LARN) e dalla necessità di coprire il fabbisogno giornaliero di proteine (biologicamente necessarie). Per farlo si possono fare diverse combinazioni, scegliendo la propria, fino ad arrivare anche a sostituire del tutto le proteine di origine animali. La classica combinazione nota, scientificamente documentata, di assunzione di cereali e legumi ottiene l’obiettivo richiesto.

Per la parte relativa al prezzo che i consumatori pagano, ci si potrebbe chiedere quanto costa una unità proteica al consumatore? A quanto vende l’agricoltore al grossista/GdO questa unità proteica? che vantaggi e rischi (anche ambientali) si rilevano in questo processo produzione-consumo? …..ecc. Insomma, si arriverà a dimostrare che consumare cereali/legumi fa bene alla salute e all’ambiente, tanto più che per coltivare tali colture si fanno le rotazioni (tecnica colturale  che i trattoristi ed altri non vogliono, ma  che è alla base della produzione biologica). Questo gioco di calcoli per la sostenibilità avanzata arriverebbe “facilmente” a calcolare il prezzo giusto-giusto reddito.

Realizzare un Patto tra consumatori e produttori ed un approfondimento di queste basi tecniche è senz’altro più importante della creazione di un tavolo tecnico avviato sulla attuale PAC che, in quanto tavolo tecnico, non metterà in dubbio le politiche esistenti e le renderà, forse, solo meno indigeste.

Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti

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