Ci sono momenti nella storia in cui la politica internazionale dimostra di essere all’altezza delle sfide. Momenti rari, che fanno pensare che l’umanità sia davvero in grado di reagire unita davanti a una minaccia comune. Uno di quei momenti è stato il 1987, quando il mondo intero si mobilitò per fermare la distruzione dello strato di ozono. All’epoca, la comunità scientifica lanciava un allarme inequivocabile: i clorofluorocarburi, usati in frigoriferi, spray e condizionatori, stavano erodendo la protezione naturale che filtra i raggi ultravioletti. Il rischio non era un concetto astratto, ma un pericolo immediato: più tumori della pelle, più cataratte, più danni agli ecosistemi. La politica comprese la gravità e, con il Protocollo di Montréal, seppe reagire con fermezza e vincoli chiari. Oggi lo strato di ozono si sta lentamente ricostituendo, e questo resta il più grande successo della diplomazia ambientale globale. Quasi quarant’anni dopo, il quadro è radicalmente diverso. Davanti a una crisi immensamente più grave — il cambiamento climatico — i governi del mondo si sono limitati a produrre promesse vaghe, impegni volontari e documenti pieni di retorica ma privi di forza vincolante. L’Accordo di Parigi del 2015, acclamato come svolta epocale, si sta rivelando per quello che è: un compromesso fragile, incapace di frenare l’aumento delle emissioni. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: il 2023 e il 2024 sono stati gli anni più caldi mai registrati, con ondate di calore che hanno reso invivibili intere città europee, incendi devastanti in Canada e Grecia, alluvioni in Libia e Pakistan, raccolti persi per siccità sempre più frequenti. Ogni mese porta con sé un nuovo disastro che ricorda, con brutalità, che il tempo delle mezze misure è finito. Eppure, la politica continua a ripetere il copione già visto: vertici solenni, fotografie di leader sorridenti, comunicati trionfalistici. Intanto, le compagnie petrolifere annunciano utili record e nuovi investimenti in petrolio e gas, proprio mentre i governi fingono di impegnarsi per una “transizione energetica”. Un ossimoro che fotografa il fallimento. Il confronto tra Protocollo di Montréal e Accordo di Parigi diventa allora inevitabile, e profondamente istruttivo. Nel primo caso, la comunità internazionale scelse di ascoltare la scienza e imporre vincoli reali; nel secondo, preferì accontentarsi di un atto simbolico, rinunciando a misure concrete. Il primo ci mostra cosa significa governare l’ambiente con serietà, il secondo ci sbatte in faccia l’ipocrisia di una governance che preferisce piegarsi ai colossi fossili piuttosto che affrontare la realtà. E allora la domanda è semplice, ma bruciante: se siamo stati capaci di salvare lo strato di ozono, perché non riusciamo a salvare il clima?
 

 

Ogni generazione si trova, prima o poi, davanti a una prova che ne misura il coraggio politico e la capacità di guardare oltre l’immediato. Negli anni Ottanta, questa prova ebbe il nome di buco dell’ozono. Un problema all’apparenza tecnico e distante, ma che rivelò improvvisamente la fragilità dell’atmosfera e la vulnerabilità della vita sulla Terra. La scienza lanciò l’allarme, i media amplificarono la portata della minaccia e la politica, in uno slancio raro di unità globale, seppe rispondere con decisione. Il risultato fu il Protocollo di Montréal del 1987: un trattato internazionale che mise al bando i clorofluorocarburi (CFC) e altre sostanze ozono-lesive, dando vita a un percorso vincolante, progressivo e sostenuto da un fondo finanziario per aiutare i Paesi più deboli. È grazie a quella scelta che oggi, a distanza di decenni, possiamo dire che lo strato di ozono si sta lentamente ricostituendo.
A ben vedere, il Protocollo di Montréal non fu soltanto un accordo tecnico su un gruppo di sostanze chimiche: fu una dimostrazione che la politica internazionale può funzionare. Dimostrò che quando la scienza parla chiaro, quando i governi ascoltano, quando la cooperazione prevale sugli interessi immediati, il mondo può compiere passi avanti significativi nella protezione dell’ambiente.

Eppure, questo successo storico stride con l’immobilismo che caratterizza la sfida più grande del nostro tempo: il cambiamento climatico. Se negli anni Ottanta si seppe agire di fronte a un pericolo circoscritto, negli anni Duemila e Duemiladieci si è preferito tergiversare davanti a una crisi che minaccia non solo l’atmosfera, ma la stabilità stessa delle società umane. L’Accordo di Parigi del 2015, celebrato come svolta epocale, si è rivelato un compromesso fragile: impegni volontari e non vincolanti, promesse finanziarie mai rispettate, mancanza di sanzioni reali. Mentre le emissioni globali continuano a crescere, i governi del mondo oscillano tra l’ottimismo di facciata e la paralisi decisionale.
Il paradosso è evidente: il Protocollo di Montréal riuscì ad affrontare con efficacia un problema serio ma circoscritto, mentre l’Accordo di Parigi sta fallendo nel contenere la più grande minaccia globale della nostra epoca. Perché questa differenza? Perché in un caso la politica seppe imporsi sugli interessi industriali, e nell’altro continua a piegarsi davanti alle lobby dei combustibili fossili?

IL MIRAGGIO DI PARIGI
Ventotto anni dopo Montréal, nel 2015, il mondo applaudiva l’Accordo di Parigi. Sulla carta, un documento storico: contenere il riscaldamento globale “ben al di sotto dei 2 °C” e, se possibile, limitarlo a 1,5 °C. Nei fatti, un trattato fragile, basato su impegni volontari, privo di sanzioni, fondato sulla speranza che gli Stati facessero spontaneamente la loro parte.
Oggi, dieci anni dopo, il bilancio è impietoso. Le emissioni continuano a crescere, le promesse finanziarie per aiutare i Paesi più vulnerabili restano in gran parte disattese, e il pianeta registra anno dopo anno nuovi record di calore. Il 2023 e il 2024 sono stati gli anni più caldi mai registrati, con conseguenze drammatiche: incendi incontrollabili in Canada, Grecia e Hawaii; alluvioni devastanti in Emilia-Romagna, Libia e Pakistan; siccità che hanno ridotto i raccolti in Africa e Sud America; città europee trasformate in forni durante le ondate di calore.

PERCHÉ MONTRÉAL FUNZIONÒ E PARIGI NO
Il confronto è brutale. Nel primo caso la politica riuscì ad agire, mentre nel secondo non sta ottenendo risultati positivi.  La risposta sta in tre fattori chiave.
Primo: la portata economica. Colpire i CFC significava penalizzare un settore industriale limitato, con alternative tecnologiche già disponibili. Colpire petrolio, carbone e gas significa mettere mano all’intera impalcatura dell’economia globale.
Secondo: la percezione del rischio. Negli anni Ottanta il messaggio era chiaro: più CFC = più raggi ultravioletti = più tumori alla pelle. Oggi il cambiamento climatico si manifesta con eventi estremi sparsi, difficili da percepire come un’unica minaccia. Una frana in Liguria, un’inondazione in Germania, un incendio in California: eventi collegati ma percepiti come disastri locali, non come parte di una crisi sistemica.
Terzo: il peso delle lobby. Le multinazionali chimiche non avevano la forza dei colossi dei combustibili fossili, capaci oggi di condizionare governi, finanziare campagne elettorali, dettare agende politiche. Non è un caso che la COP28 si sia svolta a Dubai sotto la presidenza di un dirigente petrolifero: un ossimoro che racconta da solo il fallimento della governance climatica.

LA RETORICA CHE COPRE L’INAZIONE
Ogni vertice sul clima produce documenti solenni e dichiarazioni altisonanti. Ma dietro la retorica, la realtà è che gli Stati continuano a rimandare le decisioni difficili. Parlare di “phase down” anziché di “phase out” dei combustibili fossili è l’ennesimo gioco semantico che nasconde la volontà di non toccare gli interessi più forti.
Intanto, mentre i leader mondiali brindano a Parigi o a Dubai, la realtà si incarica di smascherare l’illusione. Venezia combatte con l’acqua alta sempre più frequente, le campagne italiane perdono raccolti interi a causa delle siccità e delle grandinate, le comunità del Pacifico preparano le valigie per lasciare isole ormai inghiottite dal mare.

DUE SIMBOLI OPPOSTI
Il Protocollo di Montréal e l’Accordo di Parigi sono diventati due simboli opposti della politica ambientale internazionale. Il primo mostra ciò che il mondo può fare quando decide di agire: vincoli chiari, monitoraggi seri, risultati concreti. Il secondo mostra ciò che accade quando la politica si piega ai poteri forti: un testo elegante, tante promesse, nessun cambiamento reale.
Non si tratta solo di trattati: si tratta della credibilità stessa della governance globale. Se nel 1987 la politica seppe dimostrare di essere più forte dell’industria chimica, oggi mostra di essere ostaggio dell’industria fossile.

LE LEZIONI DA IMITARE
Ma, se il Protocollo di Montréal è stato un successo, non è solo perché il problema era più circoscritto. È stato un successo perché aveva tre elementi che mancano all’Accordo di Parigi e che oggi dovrebbero essere ripresi con urgenza per affrontare la crisi climatica. Primo: vincoli chiari e obbligatori, non promesse volontarie. Nel 1987 i Paesi non potevano semplicemente dichiarare buone intenzioni: dovevano rispettare calendari precisi di eliminazione delle sostanze ozono-lesive. Secondo: meccanismi di controllo e verifica indipendenti, capaci di misurare i progressi e denunciare chi non rispettava gli impegni. Terzo: solidarietà finanziaria reale: venne creato un fondo per sostenere i Paesi in via di sviluppo nella transizione, senza il quale il trattato non avrebbe mai funzionato. Oggi, se vogliamo davvero ridurre le emissioni di gas serra, serve la stessa ricetta: obblighi vincolanti, controlli seri e finanziamenti adeguati. Tutto il resto è retorica di facciata.

LA DOMANDA CHE RESTA APERTA
l buco dell’ozono era una minaccia seria ma circoscritta. Il cambiamento climatico è una minaccia esistenziale per la civiltà umana. Eppure, il primo è stato affrontato con decisione, il secondo con titubanza.
Il Protocollo di Montréal resta un faro: ci ricorda che un trattato internazionale può funzionare, che la cooperazione globale non è un’utopia. Ma, nello stesso tempo, è anche uno specchio: riflette la nostra incapacità attuale di affrontare il problema più grande di tutti.
In fondo, la differenza non sta nella scienza, che oggi come allora è chiara e inequivocabile. Sta nella politica: allora ci fu il coraggio di agire, oggi prevale la paura di disturbare gli interessi dei più forti.
Il buco dell’ozono si sta richiudendo. Il riscaldamento globale, invece, si sta spalancando. La vera domanda è se avremo mai il coraggio di trattarlo con la stessa serietà con cui, nel 1987, trattammo i CFC.
E allora la domanda resta sospesa, come un atto d’accusa: quante altre alluvioni, quanti altri incendi, quanti altri raccolti perduti dovremo ancora contare prima che i governi trovino il coraggio di fare sul clima ciò che seppero fare sull’ozono?

Giuseppe d’Ippolito