Nell’attuale globalizzazione, la malnutrizione è
strettamente collegata alle condizioni di vita
delle persone, a sua volta conseguenza diretta
di quella economica. Tra le popolazioni benestanti,
diffusi di fenomeni legati all’eccesso alimentare; tra
quelle più povere, le classiche carenze alimentari e
vitaminiche e le malattie correlate

Mentre il mondo precipita baldanzoso ed incosciente nella “guerra mondiale combattuta a pezzi”, come dice Papa Francesco, il 16 ottobre si è celebrata la Giornata Mondiale dell’Alimentazione, questa volta centrata sull’importanza dell’acqua e del suo uso razionale per le produzioni alimentari. I numeri sono stati riportati da tutti i media, purtroppo in parte occultati dalla cronaca di guerra quotidiana.

Bene ha fatto il presidente Mattarella a collegare la guerra al grande problema della produzione e distribuzione del cibo a tutte/i nel mondo, ricordando che il mancato accesso all’acqua (come purtroppo è avvenuto a Gaza in questi giorni tragici) e il suo spreco o inquinamento (come avviene quotidianamente nelle nostre cittadine) sono frutto delle nostre decisioni e si aggiungono a quelli del cambiamento climatico.

La tragica realtà è che, con le politiche di “sviluppo” perseguite dagli anni Sessanta in poi, la cosiddetta “fame nel mondo” ha cambiato aspetto e, se da un lato si sono ridotte le morti per carestia, dall’altro è aumentato il numero delle persone malnutrite, dirottando così le morti in altre categorie statistiche, ma diffondendo uno stato di povertà alimentare che facilmente si trasforma in povertà immunitaria, come dimostrato dalle epidemie deli ultimi  decenni; come detto in un altro articolo (“La sicurezza alimentare: un sistema complesso e difficile da controllare”, qui), sono state queste politiche prima di “rivoluzione verde” e poi di “aggiustamento”  a esporre i Paesi interessati a pericoli alimentari.  Il reale cambiamento nel numero di indigenti sul pianeta è stato realizzato dalle politiche della Cina (fuori dai programmi dell’ONU per decenni) che dagli anni Cinquanta in poi, con andamenti altalenanti a causa delle vicende politiche interne, ha sottratto alla povertà e all’indigenza una importante fetta dell’umanità.

Per il continente africano, luogo principale delle politiche dell’ONU, i risultati sono stati molto deludenti. Le politiche di sviluppo si sono facilmente trasformate in rapina e saccheggio, spesso a causa di una classe dirigente attratta dai privilegi creati dall’istruzione e dall’appartenenza alle élite che aveva lottato per l’indipendenza dei diversi Paesi. In un bellissimo libro della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi AdichieMetà di un sole giallo” sono narrate le vicende di una famiglia borghese (in realtà, quelle vissute anche dai suoi genitori) durante la guerra civile per la tentata secessione del Biafra dalla Nigeria; guerra che trasformò il luogo più ricco e benestante del grande Paese africano in un territorio devastato da guerra e carestia e che mutò, sino alla morte per fame ed indigenza, le condizioni sociali e di vita di intere famiglie che nei secoli precedenti non avevano mai affrontato questi problemi.

Ancora oggi in Europa lo stigma della fame e della povertà segna i cittadini del continente africano con atteggiamenti discriminatori e razzistici o, nel migliore dei casi, paternalistici che contraddistinguono discorsi e politiche come quella di “aiutiamoli a casa loro!”. Quando venne a giocare nella squadra del Milan, George Weah, attuale presidente della Liberia dal 2017, dichiarò che solo arrivando in Europa seppe di essere un “indigente” e che era vissuto in un luogo dove “c’era la fame” (che lui non aveva mai visto o patito).

Spesso le condizioni climatiche difficili per la sopravvivenza (ma non era certo il caso della Liberia di Weah) non causano carestie: le risorse del territorio consentono di alimentare l’organismo in modo equilibrato e di vivere (non di sopravvivere), sia pure molto sobriamente. Ma la massa di popolazione ormai si concentra in megalopoli, dove non si coltiva niente e si vive di acquisti. Trent’anni fa Serge Latouche, nel libro “L’occidentalizzazione del mondo”, sottolineava gli effetti della perdita di cultura e di economia locali: alla assenza di produzioni locali ed alla necessità di importare derrate alimentari per sopravvivere, si univa la perdita di memoria seguendo il sogno occidentale. La perdita delle società tradizionali ha prodotto la fine dei “rimedi” tradizionali, tra cui gli alimenti in caso di siccità, che avrebbero non solo nutrito (anche se limitatamente) ma portato vitamine e microelementi assenti, in genere, nei prodotti importati. Le importazioni sono costituite da alimenti di mediocre qualità, e le piante locali non esistono più nei campi, diserbati per coltivare prodotti da esportare.

Nell’attuale globalizzazione, la malnutrizione è strettamente collegata alle condizioni di vita delle persone, a sua volta conseguenza diretta di quella economica. I poveri mangiano poco e male, qualunque sia l’opinione di qualche ministro, avendo come conseguenza: tra le popolazioni benestanti, diffusi di fenomeni di obesità (ma anche di anoressia) e di malattie cardiovascolari, legati all’eccesso alimentare; tra quelle più povere, le classiche carenze alimentari e vitaminiche e le malattie correlate. Il fenomeno, ormai in diffusione anche in Italia dove le condizioni economiche si sono diversificate molto e gli indigenti sono aumentati, si presenta in forme complesse: si può mangiare molto e male con lo stile di vita metropolitano generalizzato ed avere entrambi i fenomeni sia a livello sociale, sia nelle stesse famiglie.

Come rispondono le nostre autorità al problema? Se dovessimo considerare le iniziative proposte, dovremmo dire che per le produzioni agricole si teme una (necessaria) riduzione tra le colture più diffuse nel Paese, generata da regole comunitarie e non dalla necessità di ripristino di un ambiente più equilibrato dopo il dissennato utilizzo dell’acqua, dei suoli e dei mezzi tecnici in agricoltura, fattori che hanno peggiorato le condizioni ambientali nella penisola e non hanno certo migliorato quelle economiche della maggior parte dei produttori.  Al timore che il governo manifesta per regole che ingabbierebbero i produttori, si unisce un esagerato ottimismo sul made in Italy, considerato in campo alimentare una sorta di insuperabile medicamento, addirittura un “integratore di felicità”. Due atteggiamenti che non hanno mai risolto i problemi reali (forse li hanno aggravati) e che non affrontano le cause della fame e dell’indigenza, anche in Italia. Insomma, per i governanti, lo sguardo fuori dal nostro recinto produttivo si limita a valutare l’espansione del nostro export, magari venduto in cambio di petrolio.  Tutto qui.

E che si fa per reagire alle motivazioni profonde legate alla guerra ed alle disparità sociali, citate dal presidente Mattarella? Taluni, come la Coldiretti nel suo Villaggio Alimentare a Roma realizzato per l’occasione della giornata, pensano che la soluzione sia nell’aggettivo “italiano”: prodotti e cucina italiana, bene se fatta con quelli degli agricoltori associati (ovviamente, all’organizzazione). Nel villaggio al Circo Massimo di Roma si offrono agli ospiti prodotti dell’agro romano, spuntini all’insegna dell’ospitalità italiana, ma privi del consueto caffè finale perché, nell’orgogliosa iniziativa di sapore autarchico, si prevedono solo prodotti nazionali, anche se raccolti e venduti da stranieri (ma la pasta che mangiamo ogni giorno, siamo proprio sicuri che sia fatta solo di grano italiano?).
Siamo messi così……

Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti

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