Dov’era l’ombra, or sé la quercia spande morta,
né più coi turbini tenzona.
La gente dice: Or vedo: era pur grande! 
Pendono qua e là dalla corona i nidietti della primavera. 
Dice la gente: Or vedo: era pur buona!
Ognuno loda, ognuno taglia.
A sera ognuno col suo grave fascio va.
Nell’aria, un pianto… d’una capinera
che cerca il nido che non troverà.
 
La quercia caduta, Giovanni Pascoli
(Primi poemetti, 1904)

L’abbattimento di ogni albero mi ricorda La quercia caduta, poesia studiata alle elementari, quando le maestre facevano imparare a memoria i testi, l’ambientalismo era ancora lontano e la natura contadina delle immagini evocate nel componimento era ancora presente nelle esperienze dei bambini di città. Oggi l’albero si rimuove con le macchine e nessuno, sulla stampa, si preoccupa delle vite degli uccelli presenti sulla chioma. Chissà se qualcuno scriverà una poesia come un tempo, o una canzone su questi avvenimenti. Il discorso sulla natura e sul senso della presenza degli alberi nella nostra vita stimola alcune brevi considerazioni.

I commenti che ciclicamente si susseguono sui mass media in tali occasioni, sempre più incentrati sulla sicurezza degli umani e la manutenzione delle piante, sono molto lontani da una visione globale necessaria per offrire soluzione al problema degli alberi che collassano improvvisamente. Il comportamento dei vegetali è comunque molto simile al nostro nelle medesime condizioni di vita: nei consessi urbani le piante invecchiate hanno una salute problematica, come i nostri anziani, le giovani piante crescono stentatamente come i nostri bambini e, quando si vive in campagna, la nostra abitudine a grandi concentrazioni si realizza con le piante attraverso le monocolture di individui della stessa specie, spesso derivati dallo stesso clone. Non deve meravigliare se tra i vegetali si manifestino, come per gli umani, le malattie da carenze di microelementi o da squilibri della dieta, persino nelle piante in vaso, da noi spesso trattate con abbondanti concimazioni e irrigazioni poco regolari.

Non ci chiediamo come abbiamo costretto a vivere le piante, specie i grandi alberi nelle nostre città?  Ci piacciono tanto in cartolina e nelle foto che postiamo, ma poi, quando sono in loco, ci danno fastidio gli uccelli che vi dimorano per le deiezioni, i rami che si allargano troppo verso le finestre, le radici che sollevano i marciapiedi e ci impediscono di camminare. E allora diamo il via alle capitozzature (quei tagli radicali di rami e foglie che spesso vediamo, magari con soddisfazione), alle potature fatte fuori stagione rispettando l’iter burocratico e non il ciclo biologico delle piante, alla eliminazione di alberi cinquantenni perché troppo “ingombranti” e perché sporcherebbero con le foglie e gli uccelli. Vi ho riferito cose viste e altre raccontatemi negli anni passati a vivere nelle città.

Le piante non sono percepite come viventi, dotate di una loro vita autonoma e con cui dobbiamo comunicare con un linguaggio diverso dalla parola. Sono considerate oggetti più ecologici, da sistemare e rimuovere a piacimento. E abitualmente non sono considerate nella loro interezza, ma solo per la parte che emerge dal terreno; le radici esistono solo quando danno fastidio ed anche nei casi di collasso improvviso, poche volte i giornali attribuiscono il collasso alla ridotta presenza di radici. Ma avete mai visto una qualunque squadra di operai lavorare lungo le strade ed attorno ai palazzi rispettando la presenza degli impianti radicali degli alberi presenti? Magari presentando una relazione sulle piante “toccate” dai lavori, facendo eseguire un sopralluogo preventivo da un tecnico? Eppure, i lavori sono spesso realizzati da grandi aziende che si fanno certificare per la sostenibilità dei loro interventi e dei loro bilanci.

I giornali non mettono mai in luce questi possibili aspetti che per i pini, ad esempio, sono fondamentali: eseguire muretti e panchine di pietra nell’area attorno al fusto di un pino spesso implica la rottura del sistema radicale che è superficiale in questa specie, per non  parlare della sistemazione della rete telematica che in futuro ci darà connessioni lampo e ci permetterà di avere case “intelligenti” con gli elettrodomestici on-line; lungo le strade delle nostre città e nei cortili dei palazzi gli alberi, specie i pini, sono i primi a pagare questa “modernizzazione punto zero”. Nelle campagne non va diversamente, perché la monocoltura non cede il passo alla creazione di sistemi agricoli sincretici, con un mix di piante in grado di “aiutarsi” in presenza di stress e eventi catastrofici.

Parlare di sicurezza e manutenzione quando cade un albero, senza tenere conto di questi aspetti, è inutile e ipocrita. In città o nelle campagne, un albero va piantato per durare, per vivere in un arco di tempo spesso più lungo del nostro, va difeso ed aiutato a sopravvivere quando è in difficoltà. Invece, per sicurezza e non correre rischi di denunzie, al minimo problema viene tagliato. Ma rimettere un albero non è semplice, come non lo è ripristinare l’equilibrio colturale nelle campagne. Chi studia l’agroecologia lo sa bene e vorrebbe spiegarlo agli altri, ma resta inascoltato e poco considerato in un mondo che corre verso una agricoltura di precisione che a me ricorda molto le “bombe intelligenti” in questo periodo di guerra globale.

Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti

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