“Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi
i bisogni del presente senza compromettere la
possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”.

Oggi parte in Italia un’azione a vantaggio dei cittadini, per la trasparenza e l’informazione corretta, che definiamo storica: l’ACU e Climateaid Network hanno segnalato al Garante della concorrenza la pubblicità di Poste Italiane relativa alla vendita di contratti energetici, perché ritenuta non veritiera e scorretta. I risultati dell’indagine che avvierà il Garante saranno un elemento chiave per il futuro dell’informazione ambientalista nel nostro Paese e tutta l’azione svolta dalle due associazioni segnerà il senso del nuovo rapporto che dovrà esistere nelle relazioni sociali per la realizzazione della transizione ecologica. Se vogliamo una reale sostenibilità sociale, dovranno cambiare i comportamenti di tutti: maggiore trasparenza, maggiore collaborazione, decisioni decentrate ed operatività costante. Cose che, attualmente, sono molto presenti nei sogni e poco nella realtà. Le Poste si apprestano a fare contratti di energia (per conto terzi, non la producono, ancora…), mostrando un volto rassicurante e “green”. L’ACU intende affrontare il problema non solo in termini giuridici e contrattuali, ma anche tecnici e cerca di avviare azioni assieme alle professionalità ed alle forze sociali necessarie. Sino ad ora le azioni sull’ambiente erano un campo d’intervento delle associazioni ambientaliste, così come vendere l’energia era compito delle grandi compagnie di settore. Se un’azienda di servizi essenziali come Poste vende energia, le associazioni dei consumatori devono sapere di energia e agire su questo campo.

La rivoluzione sostenibile del mondo assomiglia molto a quella avvenuta durante il Rinascimento, quando le competenze si diffusero e nacquero grandi figure “miste”, come Leonardo da Vinci, in grado di eccellere in tanti campi. Come allora la collaborazione tra imprese e persone, lavoratori o consumatori che siano, è fondamentale e le relazioni tra loro devono cambiare. In fondo la controparte di questo nostro intervento è, suo malgrado, chiamata ad un impegno originale e con essa il garante che segnerà il cammino su cui il confronto dovrà proseguire.

La sostenibilità passa tra nuove relazioni tra i soggetti che la praticano (compresi gli animali e le piante) e il sistema sociale e d’impresa non può non farle rientrare nei prossimi comportamenti, a partire da quello semplice di indicare in modo veritiero ciò che si fa, specie se le affermazioni riguardano aspetti scientifici poco conosciuti e tecnologie su cui siamo tutti poco esperti. Il modo di trattare in maniera semplificata problemi complessi e difficili ha una spiegazione che origina dal mondo fordista che ci lasciamo progressivamente alle spalle, in cui il semplice è più vendibile e più facilmente riproducibile. Usar termini in modo generico è lo strumento principale di questo modo di concepire le relazioni. Allora serve definire bene i problemi prima di iniziare a discutere.

Per capire di cosa si parla quando si dice “sostenibile” o – come si fa ora – “green” (verde, in italiano) bisogna partire dalla definizione riportata in apertura, pubblicata nel 1987 nel rapporto finale della Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo, “Our common future”, presieduta da Gro Harlem Brundtland, che contiene due concetti fondamentali: l’ambiente come elemento essenziale dello sviluppo economico e la responsabilità intergenerazionale per l’uso delle risorse naturali che lo compongono. Questa nozione è stata poi inserita nei trattati ambientali (la Convenzione sui cambiamenti climatici, del 1994, e la Convenzione sulla diversità biologica del 1993) con alcune importanti precisazioni: ad esempio, l’art. 2 della Convenzione sulla biodiversità contiene la nozione di sostenibilità, definendo sostenibile l’uso delle risorse biologiche secondo modalità e a un ritmo che non ne comportino una riduzione a lungo termine e che preservino le capacità di soddisfare le esigenze delle generazioni presenti e future. Sino alla Conferenza di Johannesburg del 2002, che conferma lo sviluppo sostenibile come motore del futuro umano, fondato su tre fattori interdipendenti: tutela dell’ambiente, crescita economica e sviluppo sociale. Ora guardiamoci attorno e guardiamo cosa è cambiato dal 1987 ad oggi nelle azioni che svolgiamo, nei servizi che utilizziamo, negli oggetti che ci circondano: da una iniziale diffidenza verso il termine sostenibilità (venivano ritenuti dei “criticoni pessimisti” coloro – come noi dell’ACU –  che parlavano di necessaria sostenibilità del sistema economico-sociale alla fine degli anni Ottanta), si è passati ad un utilizzo del termine come segno distintivo e qualificante delle iniziative svolte o dei prodotti, sino al dilagare dell’uso della parola “sostenibile”, presente in tutti i libretti d’istruzione degli elettrodomestici, nelle promozioni dei prodotti, nelle strategie di aziende, banche e governi.

L’uso della parola sostenibile è diventato così diffuso che nelle pubblicità, per distinguersi tra tanti messaggi “sostenibili”, è stato necessario utilizzare un altro termine: “green”, reso efficace non solo dall’alone di mistero che circonda ogni parola di un’altra lingua, ma soprattutto dall’immagine che la parola evoca, dopo decenni di battaglie ambientaliste condotte in tutto il pianeta, sino all’iniziativa di Greta Thunberg: Friday For Future, l’iniziativa dei giorni nostri, green e giovane per eccellenza.

I governi hanno cercato di adeguarsi all’evidenza della realtà (le risorse finiscono più rapidamente del previsto e il mondo diventa sempre più invivibile, più rapidamente di quanto pensassimo) cercando di mediare tra i gruppi d’interesse. In molti casi lo hanno fatto obtorto collo (malvolentieri, in italiano) oppure tardivamente, come spesso accade per la UE. Nella Unione Europea sono state varate o stanno per esserlo diverse strategie per la sostenibilità (Farm to Fork, Ecodesign, per citarne due) a cui i governi dei singoli Paesi reagiscono spesso in modo inerte o opponendosi, giustificando il comportamento con motivazioni tecniche (tempi di adattamento, insufficiente informazione e formazione, ecc.) come accade per l’attuale governo italiano. Ma la sostenibilità è inderogabile e traccia il percorso del futuro di tutte le attività umane. Le aziende lo sanno e si attrezzano, modificando innanzitutto la struttura interna e l’immagine. Usare i due termini (sostenibile o green), magari uniti ad una percentuale piena (100%) rende i messaggi più rassicuranti e ci convince che non necessitiamo di ulteriori spiegazioni. Le spiegazioni sono complicate, le danno gli esperti, ci sono aziende fatte da esperti che le conoscono, e allora basta citare il loro nome (meglio se questo è in inglese) per rassicurare. I dati sono noiosi e fanno venire il mal di testa, il mondo per andare velocemente verso il futuro non deve disperdersi in tanti dettagli. Allora tutti si tingono di verde e le filosofie di rinverdimento delle imprese diventano greenwashing, termine inglese che indica la superficiale tinta verde con cui le aziende tentano di coprire i loro prodotti e le loro politiche, evitando la riconversione ambientalista, costosa e difficile, e contemporaneamente mostrando un volto rassicurante alla società.

Il senso di questa filosofia dell’esistente che ci perseguita dagli anni del grande consumo, ora enunciata grossolanamente, l’abbiamo imparato dai libri di Herbert Marcuse (L’uomo ad una dimensione) o di Vance Packard (I persuasori occulti), dalle canzoni e dai film di critica al consumismo, filosofia di vita del periodo dello sviluppo economico (ricordo un pezzo di Nino Rota “Bevete più latte”, tratto da Bocaccio 70, film di critica agrodolce della società dell’epoca). Ed abbiamo imparato a reagire, chiedendo trasparenza e veridicità nelle dichiarazioni di tutti.

Tutto diventa green e rinnovabile, ma lo è veramente? Perché l’idea che tutto sia riconvertibile deriva dall’illusione del consumo facile derivato dall’energia fossile ottenuta a basso costo (per ottenere gas e petrolio basta fare un buco nella terra e poi vengono fuori da sé) e dai prodotti dai mille usi da essa derivati. Oggi sappiamo che l’energia fossile non è a basso costo, ma a costo occulto, perché l’immissione in atmosfera ha un costo altissimo in vite distrutte e cambiamento irreversibile e sempre meno adattabile alla vita del sistema terra. Perché in fondo il tentativo è sempre quello di rassicurarci e di trovare la chiave di volta che ci permetterà in futuro di non avere problemi: un tempo vi era la ricerca del Sacro Graal, poi quello della pietra filosofale che trasformando tutto in oro consentiva ricchezza eterna, oggi sostituita dalla ricerca dell’energia pulita, un sogno che passa dalla fusione nucleare fredda all’eterno rinnovabile.

La scienza ci dice altro: sappiamo poco dei processi fondamentali della natura e quel poco stravolge il nostro modo di vedere le cose, come cercano di dirci nei loro scritti Stefano Mancuso e Carlo Rovelli. Ma le nuove conoscenze ci permetteranno di vivere meglio e di avere un futuro se applicate rapidamente in azioni, servizi e prodotti.

Perché Poste Italiane SpA si interessa di energia? Ciò che abbiamo detto prima lo lascia capire: la produzione di energia a basso costo e a basso impatto ambientale è lo strumento che permetterà la sopravvivenza delle aziende e la raccolta di flussi monetari sempre più consistenti. L’avvio dei processi di fusione e trasformazione delle aziende, partita da quelle automobilistiche e chimiche, oggi passa trasversalmente tra i diversi settori. Ad esempio, nel settore dell’energia le grandi compagnie petrolifere sono diventate holding in cui la dimensione finanziaria passa di gran lunga quella produttiva. Lo stesso possiamo dire in tutti gli altri settori. Se vogliamo avere diritto di parola in un mondo siffatto, dobbiamo agire conseguentemente, interessandoci come ACU al greenwashing.

Dobbiamo superare l’aspetto specifico e tutelare non solo il consumo, ma anche la produzione, specie se i cittadini diventeranno produttori di qualcosa, ad esempio energia ( ma anche d’immagine e flussi d’informazioni, ad esempio, restando connessi per ore ad un qualsiasi social media come Facebook).

Un tempo potevamo pensare che un produttore o un lavoratore solo in taluni momenti e per alcuni aspetti della loro vita sarebbero diventati consumatori. Ora essi sono sia produttori che consumatori ed agiscono contemporaneamente su entrambi i versanti, chiamandoci così ad intervenire con maggiori competenze e diverse professionalità, filtrate dall’esperienza del consumo. Se ci limitassimo ad essere semplicemente consumatori, o produttori o ambientalisti o lavoratori, non saremmo in grado di sostenere il confronto e ci sentiremmo solo spettatori di una vita e di un futuro che ci passano davanti, come accade di sentirsi ai grandi partiti o ai sindacati di categoria. L’ACU è ancora piccola rispetto alle necessità del “momento storico”, ma abbiamo idee e cresceremo e con noi cresceranno anche le imprese che si avvieranno su questo cammino.

Oggi, forse, lo faranno obtorto collo ma rappresenteranno i capofila del patto sociale del futuro.

Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti

 

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