Il Parlamento europeo conferma che dal 2035 potranno essere
commercializzati, in Europa, solo veicoli elettrici e l’Italia alza
le barricate, ma le fonda su presupposti erronei, non veritieri e antistorici.
 

Nell’ultima relazione dell’Agenzia Europea dell’Ambiente,  (Tendenze e proiezioni in Europa 2022: qui) si afferma che il settore dei trasporti è responsabile di circa un quarto delle emissioni totali di CO2 in Europa, il 71,7% delle quali viene prodotto dal trasporto stradale. Ciononostante, il via libera definitivo del Parlamento europeo all’accordo, raggiunto dal Consiglio Ue a novembre 2022, per vietare, dal 2035, le nuove immatricolazioni di veicoli a propulsione endotermica, quelle cioè alimentate da benzina e diesel, ha visto, in Italia, una vera e propria levata di scudi a difesa dell’automotive tradizionale. Presidenza del Consiglio, ministri competenti e non, associazioni lobbystiche, parlamentari, opinions leader, media e chi più ne ha, più ne metta, si sono avventurati in difesa del made in Italy (ma quale grande brand automobilistico è più totalmente italiano?) e dei posti di lavoro che sarebbero a rischio. I più (dis)informati hanno aggiunto il proprio personalissimo carico politico: “Ma così diventeremo tutti dipendenti dalla Cina”, ritenuta (a torto) la maggiore produttrice di sistemi di accumulo (batterie).

Riepiloghiamo i termini della vexata quaestio. Prima premessa necessaria: è noto (e non contestato dai loro strenui difensori) che i motori endotermici generano una serie di emissioni climalteranti, in primis l’anidride carbonica. Ma la combustione dei carburanti genera anche una serie di sostanze di scarico, ancora più pericolose del CO2, come gli ossidi di zolfo, gli ossidi di azoto e il monossido di carbonio, gli idrocarburi incombusti. Tutte queste sostanze si miscelano tra loro formando una combinazione fortemente nociva per l’apparato respiratorio dell’uomo.

Esse si combinano nel particolato o polveri sottili (i famosi PM…) dal diametro più o meno grande (micro o nano) che compromettono la funzionalità dei polmoni umani e che rappresentano una delle più gravi forme di inquinamento urbano (avete presente i divieti alla circolazione quando i PM superano una determinata soglia?). È dal 1991 che i veicoli a motore sono stati classificati (con la dicitura “Euro” seguita da un numero) in base alla capacità inquinante dell’auto. Dalla Euro 0, già assolutamente vietate, fino ad arrivare, anno dopo anno, all’Euro 6. Già a Roma, Milano e Torino sono in vigore divieti e limitazioni alla circolazione di auto precedenti la classificazione di Euro 5. Per Roma e Milano sono già programmati i primi blocchi per le Euro 6. E sarà forse il caso di ricordare, a chi sostiene che in Europa si inquina meno che nel resto del mondo, che nel rapporto “Zero pollution”, redatto dall’Agenzia dell’Unione europea per l’Ambiente: l’Italia è tra i Paesi membri dell’Unione europea a registrare i numeri più alti per morti attribuibili all’inquinamento, in particolare quello atmosferico: sono il 13,2% dei decessi annui, tra le percentuali più alte dell’Ue (dai 60 agli 80mila morti per anno). 

Seconda premessa: Nella Comunicazione della Commissione UE del 11.12.2019 (qui) su Il Green Deal europeo, si mira a ottenere, entro il 2050, una riduzione del 90% delle emissioni di gas serra dovute ai trasporti rispetto ai livelli del 1990. Questo costituisce parte degli sforzi profusi per ridurre le emissioni di CO2 denominato pacchetto Pronti per il 55%” (il pacchetto Fit for 55 % , qui, è un insieme di proposte legislative globali e interconnesse in materia di clima, trasporti ed energia, presentato dalla Commissione europea nel luglio 2021 e concepito per far sì che la legislazione dell’UE sia allineata ai suoi stessi obiettivi climatici) e raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 nel quadro della tabella di marcia del Green Deal europeo (qui).

Queste le evidenze scientifiche e il quadro normativo comunitario che, ricordiamo, è vincolante per l’Italia.

Veniamo, adesso, alle contestazioni di coloro che propongono una visione antistorica della lotta ai cambiamenti climatici destinata a portare all’isolamento dell’Italia (sono già molte le nazioni nel mondo e non solo in Europa che hanno programmato divieti di produzione per le auto inquinanti tra il 2030 e il 2040). Partiamo dalla supremazia commerciale della Cina nella produzione degli elementi che servono all’auto elettrica e diciamo subito che chi l’afferma non ha presente lo sviluppo dei sistemi produttivi nel prossimo decennio. La mappa dei progetti per la produzione di batterie in Europa è stata realizzata da Battery-News (qui) e stima al momento in cui scriviamo una capacità di circa 1200 GWh l’anno

Produttori di macchine e impianti in Europa a partire da settembre 2022.  Autori: Gerrit Bockey & Dr. Heiner Heimes 

È interessante poiché oltre a raggruppare gli ultimi aggiornamenti sulle partnership delle Case auto, dà anche un’idea della capacità produttiva dei vari siti e dei singoli Paesi. I piani al 2029 vedono direttamente coinvolti: Porsche, in Germania; Seat, in Spagna; Tesla, in Germania; Volkswagen, in Germania e Repubblica Ceca; Volvo, in Svezia; prossimamente dovrebbe essere ufficializzato anche l’accordo siglato da Stellantis per la produzione di batterie a Termoli, in Italia. Essi si aggiungono ai progetti di produzione, già in essere, in Polonia, Slovacchia, Ungheria, Italia, Spagna, Francia, Gran Bretagna, Norvegia, Svezia.

Riciclaggio delle batterie in Europa (a partire da luglio 2022). Autori: Natalia Soldan & Dr. Heiner Heimes 

Altro che monopolio della Cina, almeno nel prossimo futuro!

E ciò ci introduce all’ultima obiezione: la perdita di posti di lavoro. Certo sono necessarie politiche di adeguamento alle nuove prospettive di sviluppo, ma quale sono queste prospettive? Lo leggiamo in uno studio dell’ecosistema automotive italiano, pubblicato da Motus-E (qui) e realizzato con il Center for Automotive and Mobility Innovation dell’Università Ca’ Foscari Venezia, sui riflessi occupazionali sulla filiera auto italiana della transizione verso l’elettrico (qui lo studio). In esso si precisa, val la pena di riportare integralmente i passaggi più rilevanti: “Procedendo per gradi, l’estrazione rileva che gli occupati delle imprese integralmente dedicate ai motori endotermici, quindi a rischio maggiore, sono complessivamente 14.000. Di questi, il 40% lavora per aziende di grandi dimensioni. Una volta identificate le imprese e gli occupati toccati dalla transizione, l’analisi ha inquadrato poi le 107 imprese operative già oggi nel segmento dei powertrain elettrici, che impiegano 22.000 persone con un fatturato di circa 7 miliardi di euro. Questo peraltro è solo un primo risultato, che potrebbe aumentare a seguito di ulteriori analisi più approfondite sulle nuove produzioni e, soprattutto, sulle imprese che già stanno investendo in nuove attività. Per costruire degli scenari occupazionali al 2030, occorre poi considerare che i nuovi posti di lavoro non saranno limitati alle sole realtà che già fanno parte dell’attuale ecosistema della mobilità elettrica. Un ruolo chiave sarà quello delle nuove attività al servizio di questa filiera. Sono in costante aumento infatti le iniziative manifatturiere collaterali che possono contribuire in modo particolarmente rilevante alla creazione di nuovi posti di lavoro. Il tutto garantendo anche una maggiore solidità della filiera e una riduzione della dipendenza dalle forniture extra Ue. Un esempio lampante sono le batterie. A titolo esemplificativo, considerando gli impianti già previsti in Italia e la media di occupati per GWh degli stabilimenti esistenti, solo per questo comparto si stima ad oggi la creazione di 4.000 nuovi posti di lavoro diretti Con i ¾ degli occupati della filiera dedicati oggi a produzioni non esclusive per i powertrain endotermici, dall’analisi emerge che sarebbe sufficiente al 2030 un marginale incremento di queste attività trasversali per compensare anche un dimezzamento dei lavoratori destinati unicamente ai motori tradizionali. 

Approfondendo il ragionamento con le ipotesi di reattività assunte, l’impatto occupazionale complessivo al 2030 risulta addirittura positivo, con un incremento del 6% degli occupati totali della filiera. Numeri a cui si potrebbero peraltro sommare i circa 7.000 nuovi posti di lavoro al 2030 stimati da BCG per il comparto infrastrutture ed energia al servizio della mobilità elettrica, che per chiarezza si è deciso però di contabilizzare a parte.

Altra ricerca, sempre pubblicata da Motus-E, affronta il tema delle Infrastrutture di ricarica a uso pubblico in Italia (qui) segnalando un endemico ritardo in Italia rispetto al resto d’Europa e propone uno specifico Vademecum per la realizzazione di una rete di stazioni di ricarica ad uso pubblico (qui) per aiutare i Comuni nell’attività di coordinamento dell’infrastrutturazione urbana. Si chiarisce che la mobilità elettrica non è più solo un’opzione. Secondo gli obblighi derivanti dalla Direttiva DAFI (qui) Comuni sono tenuti ad adeguare i propri regolamenti in modo da garantire la predisposizione all’allaccio per la ricarica dei veicoli elettrici.

Ricapitolando: i problemi presupposti sono gravi e attentano alla salute di noi tutti e dell’ambiente in generale. Le obiezioni alla mobilità elettrica sono antistoriche e fondate su assunti non rispondenti alla realtà. Gli obblighi di legge ci sono, le previsioni normative pure. Non esistono soluzioni semplici ma i cambiamenti tecnologici che interesseranno il settore automotive, sarà una vera novità nella sua storia ultracentenaria.

Adesso tocca a noi (e ai nostri decisori politici) decidere da che parte della storia collocarsi: verso l’ambiente e la comunità umana o verso lo sfruttamento infinito di un pianeta a risorse finite.

Giuseppe d’Ippolito, Website Founder