Del rapporto strettissimo tra cambiamento climatico e situazione sanitaria si occupano ormai da decenni le istituzioni internazionali, producendo rapporti sempre più allarmati per l’influenza sulla salute delle popolazioni del pianeta. Oggi lo fanno in modo più consapevole e articolato, forti dell’esperienza amara del periodo più drammatico della pandemia. Il catastrofico terremoto tra Turchia e Siria (benché non ascrivibile al clima, ma portatore di mutamenti collaterali

anche in questa sfera), mostra come tutto ciò non basti affinché si modifichino comportamenti che permettano di vivere pur in presenza di cambiamenti climatici. Ormai quasi nessuno mette più in dubbio l’evoluzione climatica, una volta constatati l’aumento delle temperature, degli “eventi” estremi nelle aree più ricche del pianeta (i cui governi si ritenevano a torto indenni da questi fenomeni e comunque con la presunzione di controllarli) e l’innalzamento degli oceani che eroderanno le popolose coste dei continenti.

Ma questa tardiva e parziale ammissione ha impedito di avviare una reazione adeguata e l’attuale situazione condanna in partenza i più deboli del pianeta: donne, poveri e minoranze.

Attualmente vale quanto prodotto dalle regole economiche affermatesi dagli anni Ottanta in poi: si teorizza di lasciare la soluzione di problemi, anche ambientali, all’azione delle “forze del libero mercato” senza interventi pubblici e, di fatto, si sancisce la filosofia dell’homo homini lupus, sempre più sostenuta dall’uso delle armi, dai gruppi criminali e dalla corruzione che dominano i traffici commerciali. La cura della salute della specie umana non sfugge a questo destino, nonostante l’assemblea dell’ONU, nel varare i 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile, abbia inserito al terzo punto “salute e benessere”, dopo quelli di sconfiggere povertà e fame. Se la specie umana ci mette del suo nel cercare di non raggiungere gli obiettivi programmati, nonostante la loro pianificazione con tanto di target da realizzare e di indicatori per valutarli, il cambiamento climatico ne complica la realizzazione, aggravando molti degli aspetti valutati al momento dell’emanazione dell’Agenda 2030.  Il recente rapporto sulla relazione tra clima e salute pubblicato da Lancet, il “Lancet Countdown on health and climate change” (qui), mette in rilievo la sempre maggiore frequenza di ondate di calore e di eventi meteorologici estremi come incendi, inondazioni, siccità, che offrono le basi per la diffusione delle malattie infettive. Se uniamo a queste “basi” la diffusione di CO2 nell’atmosfera, elemento essenziale per la formazione delle macromolecole, quindi dei virus che sono una forma di questi aggregati, abbiamo un quadro che, schematicamente, si può riassumere così:

Riscaldamento globale e stress da calore, con conseguenze dirette (colpo di calore) e indirette (peggioramento delle patologie preesistenti).
Inquinamento dell’aria, incendi e disturbi respiratori, con conseguenti malattie respiratorie ed asma.
Aumento della diffusione delle malattie infettive trasmesse da vettori, cioè di diffusione di infezioni come Dengue, Zika, Chikungunya e malaria, con l’allargamento della loro area di presenza e il prolungamento delle condizioni per la trasmissione.
Inondazioni, qualità delle acque e rischio di contaminazione batterica, con aumento del rischio di malattie da contaminazione batterica, ma anche con effetti indiretti, poiché la malnutrizione derivata causa diarrea e, quindi, riduzione della capacità dell’individuo di nutrirsi.

È evidente che il cambiamento climatico sia anche una questione sanitaria, non affrontabile solamente con qualche farmaco, ma sviluppando dei sistemi di prevenzione rispetto alle ondate di calore e agli eventi estremi e preparando i sistemi sanitari all’impatto con essi. In questo caso si sollevano questioni delicate e dal peso notevole, quali, ad esempio, quelle dei co-benefici ottenibili con una migliore alimentazione e il miglioramento dei trasporti, ma anche con una migliore organizzazione del sistema sanitario e con un’adeguata preparazione professionale degli operatori. E qui sorgono i problemi, perché per realizzare una sanità di prevenzione, adatta a mitigare gli effetti del cambiamento come di adattarsi ad esso, è necessario potenziare la medicina d’urgenza e quella dei disastri. Sembra, però, che nel maggior numero di Paesi (incluso il nostro) si viaggi in direzione ostinatamente contraria, chiudendo ospedali di zona e “pronto soccorso”.  Così come in senso inverso si viaggia anche per la parte relativa alla formazione professionale: i medici sono pochi rispetto alle necessità, le università chiudono il numero di iscrizioni a medicina e rivolgono le loro attenzioni alla medicina in grado di produrre profitti, si abbandonano e vengono dimenticate pratiche mediche tradizionali che, specie in fase di diffusione primaria, potrebbero utilmente affiancarsi a quelle mediche, allargando il target e l’area d’intervento . 

Ritornando ai “concetti-chiave” (persone, prosperità, pace, partnership, pianeta) che dovrebbero guidare l’azione contro il cambiamento climatico, per la parte sanitaria è arduo ritenere che i Paesi siano sul giusto binario. Solo per la parte italiana, le deficienze del sistema sanitario e le discriminazioni che di fatto il privato, anche convenzionato, realizza, ripropongono il problema di chi dovrebbe guidare questa lotta: lo Stato, le comunità locali, le iniziative collettive o quelle private? Non vi è chiarezza e spesso le forze e le risorse si disperdono senza molto costrutto. 

Ho parlato di pandemia e della terribile situazione attuale in Siria e Turchia post-terremoto; sono dei buoni test per comprendere la complessità delle implicazioni tra i diversi settori della società e gli ostacoli che si creano, anche involontariamente, sulla strada della lotta al cambiamento climatico.

Il Covid 19 è frutto di un salto di specie, a sua volta frutto di una rottura degli equilibri naturali che – guarda caso – sono riconducibili al cambiamento climatico, a loro volta frutto di alcune azioni umane: ad esempio, gli allevamenti industriali e l’urbanizzazione diffusa e selvaggia. Sappiamo ancora poco del virus, nonostante la ricerca lavori incessantemente, ma certo abbiamo notato la correlazione esistente tra le condizioni di sviluppo del Covid-19, la quantità di carbonio dispersa nell’aria e l’aumentata fragilità di qualunque vivente (pianta o animale che sia) quando esso vive in grandi concentrazioni. 

Ma perché la nostra lotta per arginare la diffusione del virus si è rivelata solo parzialmente efficace?  Sin da principio un ostacolo (involontario) è stato costituito dalle regole del mercato: l’OMS nel dare le raccomandazioni necessarie si mosse sul principio dell’evidenza scientifica, che prevede, in caso di assenza di certezze, la continuazione del regolare sistema di mercato globale. Così l’11 gennaio 2020 si raccomandò “di evitare qualsiasi restrizione ai viaggi e al commercio con la Cina”, dove era in atto l’epidemia almeno dal dicembre 2019 (ma questo lo si è scoperto dopo). Come hanno dimostrato altre epidemie in passato, sul concetto di evidenza scientifica pesano non solo le conoscenze scientifiche a disposizione, ma anche i condizionamenti socioeconomici e culturali. Se analizziamo le vicende relative alla diffusione di malattie come l’HIV e all’utilizzo di farmaci, parleremo di casi in cui la concorrenza e le sue regole, compresa quella del più forte, si sono imposte a scapito della salute delle persone e delle cure. La pandemia ha così seguito il suo flusso e si riaccende ogni volta che una nuova variante si affaccia sul pianeta; ci sentiamo più sicuri, ma sappiamo bene che si tratta di una difesa limitata, con molte falle che le regole del commercio e delle relazioni tra Stati non consentono di richiudere facilmente.

Servirebbe una collaborazione diffusa, delle regole semplici e trasparenti in grado di orientare chiunque sul pianeta in merito alle necessità sanitarie, richiamando la memoria e la cultura di ciascuno ed avvalendosi dell’esperienza che la specie umana ha condotto su tutto il pianeta. Certo, la diffusione capillare della cultura “occidentale” nel mondo (come la definisce Serge Latouche) non migliora la capacità di reazione delle popolazioni, che spesso acquisiscono alcune abitudini e dimenticano i comportamenti tradizionali che in alcuni casi sarebbero maggiormente efficaci e fornirebbero adeguata resilienza alla società. Ma ci sono altri aspetti sconcertanti e odiosi del comportamento umano che andrebbero rimessi in discussione. L’embargo che riteniamo utilissimo per combattere i tiranni si ritorce contro come un boomerang quando, ad esempio, la catastrofe si abbatte in Siria: non si possono concedere aiuti a quel governo, non si permette a quelle popolazioni di andare altrove, anche respingendole con la forza, ma le epidemie causate dalla mancanza di mezzi, dai cadaveri sotto le macerie del terremoto potranno diffondersi.

Anche i batteri e i virus, come i cinghiali, non ascoltano la radio, non leggono i cartelli e non rispetteranno le frontiere. 

Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti