Di solito il periodo delle festività di Natale si trascorre in famiglia o con gli amici. Ed è la fiera dei passatempi. Giochi di carte, tombola, monopoli, e così via. Oggi vi propongo di utilizzare quel tempo per rivedere un vecchio film del 1976: “Quinto Potere” (il film che valse l’Oscar ai due protagonisti, Peter Finch e Faye Dunaway). Chi non era ancora nato quando uscì nelle sale, ma anche i miei coetanei, vi potranno trovare delle importanti similitudini con quel che ci accade in questi ultimi anni e che qui vi segnalerò. Perché Sidney Lumet (il regista, Oscar alla carriera nel 2005) aveva capito tutto prima di tutti. In un’epoca in cui la televisione era ancora considerata una finestra innocente sul mondo, lui la filmava come una macchina famelica, un organismo capace di ingoiare qualsiasi cosa: notizie, tragedie, follia, perfino la verità. Con Quinto Potere non girò un film: compose un’autopsia. Mostrò cosa succede quando il potere economico, mediatico e politico fondono le loro necessità in un’unica narrazione tossica. Oggi, quasi cinquant’anni dopo, viviamo in quella narrazione. Solo che, oggi, il palcoscenico non è più il telegiornale, è la sostenibilità. La nuova arena del controllo, del marketing, della propaganda globale. Lumet ci aveva avvertito: quando una società trasforma l’informazione in spettacolo, smette di distinguere ciò che è vero da ciò che è utile al potere. In questa fine del 2025 questo principio governa tutto ciò che viene raccontato sul clima, sulla transizione energetica, sui mutamenti ambientali. È lo stesso meccanismo, solo aggiornato: un tempo c’erano gli indici di ascolto, oggi ci sono i flussi finanziari dei nuovi petrodollari e le campagne di greenwashing camuffate da responsabilità ambientale. Quinto Potere non è un film del passato. È il nostro presente travestito da parabola. E se siamo «incazzati neri» è proprio perché Lumet ci aveva già mostrato il trucco, e noi continuiamo a cascarci.
C’è una scena in Quinto Potere (Network, 1976) che oggi dovrebbe essere proiettata all’inizio di ogni telegiornale, prima di ogni videomessaggio elettorale, e a ogni apertura di conferenza stampa ministeriale. È il momento in cui Howard Beale, l’anchorman sull’orlo del crollo, guarda dritto in camera e urla «I’m as mad as hell and I’m not going to take this anymore!».
Ha perso tutto, non ha più niente da fingere, e proprio per questo diventa per un istante autentico. Parla come parlerebbe chiunque sia stanco di essere preso in giro. E soprattutto rompe il patto sporco tra potere economico, media e politica: quello che trasforma l’informazione in intrattenimento, l’indignazione in prodotto, la verità in un optional.
LA RABBIA COME CARBURANTE DELLA DISINFORMAZIONE
Howard Beale diventa un fenomeno mediatico perché l’indignazione è più facile da vendere della complessità. È lo stesso meccanismo che alimenta oggi la disinformazione climatica.
Non parlo solo dei negazionisti da bar, quelli che “fa freddo quindi il riscaldamento globale non esiste”. Parlo della disinformazione professionale: think tank finanziati da industrie fossili, campagne social mirate, influencer che costruiscono una comunità vendendo un’identità “anti-Greta”.
Funziona perché semplifica: la scienza è lenta, la propaganda è rapida; la ricerca è complessa, la bugia è lineare; il clima è un sistema, la narrativa verde è un meme.
Come nel film, chi controlla il frame controlla l’emozione, e chi controlla l’emozione controlla il dibattito pubblico.
IL PARALLELO DI OGGI: NON È PIÙ LA TELEVISIONE A MANIPOLARE, MA LA SOSTENIBILITÀ STESSA
Oggi non è più (solo) il telegiornale a costruire una realtà di plastica. È l’intero ecosistema comunicativo sulla sostenibilità. Un sistema che ha trasformato le ansie climatiche in opportunità di mercato, le responsabilità dei grandi in colpe individuali, la catastrofe ambientale in un packaging verde.
Nel 1976 il bersaglio era la televisione commerciale. Nel 2025 è il greenwashing. Le multinazionali petrolifere che si ripuliscono con un video di 30 secondi a base di foglioline e bambini sorridenti. I governi che annunciano “piani storici” che nessuno finanzierà. I politici che parlano di “equilibrio” tra crescita e ambiente mentre approvano nuove trivellazioni o tagliano i fondi alla transizione. Le aziende che piantano 20 alberi su Instagram e ne abbattono 20mila nel mondo reale.
Tutto questo non è un errore. È strategia. È progettato a tavolino, con la stessa logica con cui in Quinto Potere il network decide di trasformare la follia di un uomo in spettacolo monetizzabile: se la gente è arrabbiata, vendiamoglielo come prodotto.
QUANDO BEALE SVELA IL PATTO SEGRETO TRA MEDIA E PETRODOLLARI
E c’è un’altra scena, ancora più importante per il nostro presente. Una scena che parla di petrolio, finanza, controllo e propaganda. Una scena che sembra scritta per il 2025.
Howard Beale, dal suo pulpito catodico, racconta in diretta che la rete televisiva sta per essere venduta a un consorzio arabo. Denuncia l’ingresso dei petrodollari nel sistema mediatico americano. Mette in luce, senza filtri, il rapporto sempre più stretto tra i grandi network e i flussi finanziari legati al petrolio. È un momento devastante. Beale passa dall’essere un fenomeno commerciale a essere un problema politico. E il sistema reagisce come reagisce sempre quando qualcuno osa parlare dei soldi veri: lo vuole licenziare. Mettere a tacere. Cancellare.
Perché non esiste trasparenza quando in gioco c’è il petrolio. Non esiste libertà quando gli investitori decidono la linea editoriale. Non esiste verità quando i media dipendono da chi finanzia le loro pubblicità. Provate a sostituire “investitori arabi” con “OPEC”, “emirati”, “fondi sovrani”, “lobby del gas”, “Big Oil” e l’effetto è identico. Quinto Potere non era un film. Era un avvertimento.
L’ERA DEI NUOVI PETRODOLLARI
Oggi i nuovi petrodollari non stanno solo comprando reti televisive o giornali.
Stanno acquistando squadre di calcio, città intere nel Golfo, partecipazioni nei colossi europei dell’energia, fondi d’investimento, infrastrutture strategiche, spazi pubblicitari massicci mascherati da “educazione ambientale”.
E soprattutto stanno comprando narrazione.
È questo il nodo. Non interessa più solo vendere petrolio: interessa possedere il racconto sul petrolio. Interessa decidere cosa il pubblico deve pensare della transizione. Interessa presentare il gas come “energia ponte”, il petrolio come “risorsa indispensabile”, le rinnovabili come “utopia”.
Esattamente come nel film, la verità non deve emergere. Deve essere intrattenimento. Deve essere negoziabile. Deve essere comoda.
GREENWASHING: LA PROPAGANDA SOFT-POWER DEI NUOVI IMPERI FOSSILI
In Quinto Potere, l’emittente sfrutta la voce di Beale finché conviene. Poi, quando il suo messaggio diventa un problema per gli affari, il network decide di eliminarlo. Letteralmente.
Il greenwashing è la stessa cosa: ti dico ciò che vuoi sentirti dire finché mi porta profitti. Ti parlo di sostenibilità finché non mette in discussione il modello economico. Ti vendo la mia immagine “green” finché non mi costringe a cambiare davvero.
E quando qualcuno prova a dire la verità?
Quando uno scienziato o un attivista, o un giornalista serio ricorda che il carbon budget non è un’opinione?
Allora scatta la controffensiva: delegittimazione, ridicolizzazione, narrativa anti-élite.
Proprio come la rete televisiva del film neutralizza Beale, oggi le lobby fossili neutralizzano la verità climatica. Il greenwashing è diventato la forma più sofisticata di propaganda del XXI secolo.
Non serve più comprare un canale TV o un giornale. Basta sponsorizzare conferenze internazionali sul clima. Basta finanziare studi pseudo-indipendenti. Basta comprare spazio sui social con influencer “scettici”. Basta inserire foglioline verdi sui bilanci aziendali.
Così petrolieri e governi produttori possono continuare a trivellare, estrarre, esportare e inquinare mentre si presentano come campioni della sostenibilità.
È la versione moderna dell’acquisto della rete televisiva denunciato da Beale:
un sistema mediatico, economico e politico che si inginocchia davanti al flusso ininterrotto dei petrodollari, oggi ancora più grandi grazie alle crisi energetiche, alle guerre, alle instabilità globali.
LA DISINFORMAZIONE CLIMATICA COME ARMA GEOPOLITICA
Quando qualcuno denuncia questo intreccio, siano scienziati, giornalisti, attivisti, succede quello che succede a Beale: il sistema reagisce.
Non sempre licenzia, ma minimizza, scredita, ridicolizza. Creando confusione strategica, produce dubbi ad arte. Parlando di “equilibrio”, dice che “bisogna ascoltare tutte le voci” e così mette sullo stesso piano scienza e propaganda.
È una disinformazione scientificamente ingegnerizzata. Una macchina globale che ha un obiettivo molto semplice: non fermare la transizione, ma rallentarla fino a renderla innocua.
Perché ogni anno di ritardo è un anno di profitti fossili in più.
ECCO PERCHÉ SIAMO INCAZZATI NERI
Perché viviamo in un mondo in cui le lobby fossili scrivono i comunicati dei governi; i colossi energetici finanziano le campagne politiche; il greenwashing vale più della riduzione reale delle emissioni. La transizione è stata trasformata in un format comunicativo, non una politica ambientale. E mentre ci parlano di “pianeti verdi” con Photoshop: l’Europa arretra sui suoi target climatici, gli stati investono ancora miliardi in sussidi ai combustibili fossili, le aziende più inquinanti fanno profitti record, i media danno lo stesso spazio a scienziati e complottisti in nome di un “equilibrio” che non è altro che manipolazione.
È il mondo che Howard Beale aveva già visto. Un mondo dove chi denuncia il sistema diventa un bersaglio.
Siamo incazzati neri perché ci stanno rubando il futuro raccontandoci che ce lo stanno salvando. E non possiamo più accettarlo.
E ALLORA? ALLORA RICORDIAMOCI COME SI CONCLUDE IL MONITO DI BEALE.
Il suo ultimo messaggio non è un urlo di disperazione. È un appello diretto, scolpito, inevitabile: «Solo voi potete fermarli.»
Oggi quelle parole pesano più di ieri. Perché non lo faranno i governi. Non lo faranno i media. Non lo faranno le aziende. Non lo farà il mercato.
L’urlo di Howard Beale non vuole cambiare la televisione. Ma cambiare chi lo ascolta. Li spinge a smettere di essere spettatori passivi.
Questo è il punto: la rabbia è utile solo se diventa lucidità. E la lucidità oggi significa iniziare a smontare il greenwashing leggendo le etichette, seguendo le campagne, gli slogan, e capendo dove finisce la verità e inizia il trucco. Non cadere nelle trappole della disinformazione: riconoscendo chi ha interesse a produrre dubbi invece di soluzioni. Pretendere responsabilità, non storytelling: dalle aziende, dai governi, dai media.
Non possiamo più permettere che la sostenibilità sia un genere televisivo.
Non possiamo accettare che la crisi climatica venga confezionata come intrattenimento.
Non possiamo continuare a essere il pubblico silenzioso di un gigantesco teatro di ombre. Siamo incazzati neri ed è il momento di usare questa rabbia per cambiare canale. Non quello della TV, ma quello della storia.
Solo noi possiamo fermarli. Con indignazione, lucidità, scelta, pressione politica, disobbedienza quando serve, verità senza sconti. Proprio come Beale ci aveva avvertito.
Prima che sia troppo tardi.
Giuseppe d’Ippolito


