Il cambiamento climatico rappresenta ormai una delle sfide più urgenti e complesse del nostro tempo, con conseguenze dirette sulle economie, sulle società e sulla stabilità geopolitica globale. In questo contesto, le dichiarazioni dei leader politici assumono un peso enorme: esse non solo segnalano intenti, ma orientano investimenti, politiche industriali e aspettative pubbliche. Il 30 settembre 2025, la Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha annunciato la ridefinizione dei target climatici dell’Unione Europea, fissando nuovi obiettivi intermedi per il 2035 e il 2040. L’annuncio è stato presentato come un passo decisivo verso la neutralità climatica al 2050 e come un rafforzamento della leadership europea nel contesto internazionale, in vista della COP30. Tuttavia, dietro la retorica ambiziosa si nascondono numerosi elementi di incertezza e contraddizione. Le dichiarazioni sulla “flessibilità” e sull’uso dei crediti di carbonio internazionali sollevano interrogativi sulla reale efficacia dei target. La mancanza di dettagli concreti su strumenti di monitoraggio, enforcement e strategie operative rischia di trasformare quello che appare come un impegno politico in un mero esercizio di comunicazione. A ciò si aggiungono tensioni interne tra Stati membri, divergenze economiche e pressioni industriali che potrebbero ostacolare l’attuazione coerente delle politiche climatiche europee. Questa introduzione non si limita a porre la questione della credibilità dell’UE come leader ambientale, ma pone anche interrogativi profondi sul rapporto tra dichiarazioni politiche, enforcement normativo e impatto reale. L’Europa, infatti, rischia di presentarsi come un attore simbolico sul palcoscenico internazionale, con politiche climatiche più orientate all’immagine che alla sostanza. L’articolo che segue analizza criticamente queste dinamiche, evidenziando le contraddizioni strutturali, le implicazioni socio-economiche e le conseguenze geopolitiche dell’annuncio di von der Leyen, ponendo un interrogativo centrale: quanto è reale l’impegno dell’UE nella lotta al cambiamento climatico, e quanto, invece, si tratta di un’operazione di facciata?
Il 30 settembre scorso, Ursula von der Leyen ha annunciato la ridefinizione dei target climatici dell’UE, con nuovi obiettivi intermedi al 2035 e al 2040. A prima vista, l’iniziativa sembra incarnare ambizione, visione strategica e leadership globale, ma un’analisi più attenta rivela una realtà diversa: ciò che viene presentato come un impegno trasformativo rischia di essere un esercizio di greenwashing politico, volto più a consolidare l’immagine internazionale dell’UE che a generare reali riduzioni delle emissioni.
DICHIARAZIONI VAGHE E PROMESSE SIMBOLICHE
Il primo problema riguarda la mancanza di chiarezza operativa. L’annuncio parla di target intermedi, flessibilità e crediti di carbonio internazionali, senza fornire dettagli concreti su strumenti di monitoraggio, metodologie di calcolo e sanzioni. Senza un percorso normativo vincolante, l’UE rischia di ripetere il copione già visto con il Green Deal: promesse mediatiche ambiziose, ma con un’efficacia pratica discutibile.
FLESSIBILITÀ ESTREMA: IL PARADOSSO DEI CREDITI DI CARBONIO
Il ricorso ai crediti di carbonio internazionali – fino al 3% del target – rischia di diventare un semplice espediente contabile. Invece di ridurre le emissioni all’interno dell’UE, esse potrebbero essere compensate da investimenti all’estero. Molti progetti di carbon offset hanno risultati difficilmente verificabili. Di fatto, l’Europa potrebbe vantarsi di leadership climatica senza modificare la propria struttura industriale o i modelli di consumo energetico.
TENSIONI INTERNE E DISOMOGENEITÀ TRA STATI MEMBRI
L’armonizzazione degli obiettivi tra 27 Stati membri è problematica. Paesi con economie ad alta intensità energetica o settori industriali tradizionali potrebbero ottenere deroghe o slittamenti, trasformando i target in promesse parziali. La flessibilità promessa diventa così un’arma a doppio taglio: utile per la comunicazione politica, ma paralizzante sul piano operativo.
GREENWASHING NORMATIVO E DEBOLEZZA GIURIDICA

Dal punto di vista legislativo, la proposta UE appare debole. Senza norme vincolanti e controlli rigorosi, i target rischiano di restare simbolici. Settori industriali forti, lobby energetiche e governi nazionali possono bloccare o diluire l’attuazione, trasformando la dichiarazione in un greenwashing normativo, più orientato alla comunicazione che alla riduzione reale delle emissioni.
IMPLICAZIONI SOCIO-ECONOMICHE: CHI PAGA IL PREZZO?
Se le politiche climatiche non saranno accompagnate da investimenti in tecnologie verdi e sostegno alle regioni e settori più vulnerabili, rischiano di aumentare le disuguaglianze e penalizzare le fasce più deboli della popolazione. La mancanza di chiarezza potrebbe generare incertezze per le imprese, ostacolando gli investimenti necessari per una transizione verde efficace.
LA RETORICA DELLA LEADERSHIP GLOBALE E LE CONTRADDIZIONI INTERNE
L’UE si propone come leader globale, ma le sue azioni interne spesso contraddicono questa posizione. Decisioni legislative recenti, pressioni industriali e concessioni agli Stati membri più resistenti alle misure climatiche rivelano contraddizioni strutturali. La leadership si misura in risultati concreti e verificabili, non in dichiarazioni o comunicati stampa.
TRA SIMBOLISMO E INEFFICACIA REALE
La ridefinizione dei target climatici rischia di rappresentare un esercizio di facciata: più simbolico che sostanziale, più comunicativo che operativo. Se l’Europa intende davvero guidare la transizione climatica globale, deve superare la retorica e garantire:
- Enforcement vincolante
- Trasparenza totale sui meccanismi di riduzione
- Investimenti pubblici massicci
- Coordinamento effettivo tra Stati membri
Altrimenti, rischia di confermare le critiche già mosse al Green Deal: politiche climatiche di immagine, utili a costruire consenso e leadership internazionale, ma incapaci di produrre cambiamenti concreti e duraturi.
Hèléne Martin


