Nelle ultime settimane è tornato alla ribalta un intreccio tanto delicato quanto rivelatore: quello tra energia e commercio internazionale. Donald Trump, rientrato alla Casa Bianca, ha rivolto all’Italia una richiesta precisa: acquistare maggiori quantità di gas naturale liquefatto (GNL) dagli Stati Uniti, in cambio di un allentamento dei dazi americani sui prodotti agroalimentari e manifatturieri italiani. In altre parole, energia fossile in cambio di spazio sui mercati. Per l’Italia la questione non è banale. Da decenni il Paese vive di una pesante dipendenza dall’estero per il proprio approvvigionamento energetico: prima con la Russia, oggi con Algeria, Azerbaijan e Stati Uniti. Ma se il contesto geopolitico è cambiato, la logica resta la stessa: legarsi a contratti di lungo periodo per garantire forniture di gas. Un modello che, a prima vista, offre sicurezza, ma che allo stesso tempo perpetua la vulnerabilità del sistema e limita l’autonomia delle scelte politiche. La proposta americana porta alla luce una contraddizione profonda. L’Italia ha sottoscritto impegni stringenti sulla transizione ecologica, ha dichiarato l’intenzione di accelerare sul fotovoltaico, sull’eolico e sull’idrogeno, e ha visto negli ultimi anni crescere massicciamente gli investimenti privati nelle rinnovabili. Eppure, quando le pressioni geopolitiche si fanno forti, la risposta immediata è quasi sempre la stessa: comprare più gas, non cambiare modello. È in questo contesto che emerge con chiarezza quello che possiamo definire un Effetto Paradosso. Lo Stato italiano continua a destinare risorse pubbliche enormi a sostegno dei combustibili fossili – sussidi, agevolazioni, capacity market, garanzie per infrastrutture – consolidando una dipendenza che a parole si dichiara di voler superare. Allo stesso tempo, lo sviluppo delle rinnovabili, cioè delle fonti che dovrebbero liberarci da questa dipendenza, è lasciato in gran parte alle imprese e ai capitali privati, con incentivi pubblici che restano secondari e spesso inadeguati. Questo scarto tra retorica e pratica non è solo una questione economica: è un tema di sovranità nazionale, di credibilità internazionale e di giustizia climatica. Perché, se spendiamo soldi pubblici per rafforzare ciò che vogliamo abbandonare, mentre affidiamo al mercato ciò che dovrebbe essere la nostra priorità strategica, rischiamo di rimanere intrappolati in una transizione incompiuta, vulnerabile ai ricatti esterni e incapace di rispondere davvero alla crisi climatica. In quest’articolo analizzo la situazione italiana utilizzando dati, riferimenti storici, giuridici, economici e geopolitici.

 

ENERGIA E GEOPOLITICA: IL GAS COME MONETA DI SCAMBIO
La storia energetica dell’Italia è anche la storia della sua diplomazia. Fin dagli anni ’60, la politica estera italiana è stata fortemente intrecciata con l’approvvigionamento energetico. L’Eni, fondata da Enrico Mattei, costruì un modello che puntava ad accordi bilaterali con Paesi produttori, spesso al di fuori dei circuiti tradizionali dominati da Stati Uniti e multinazionali petrolifere anglosassoni.
La Russia (allora URSS) divenne presto un partner chiave: negli anni ’70 e ’80, l’Italia fu tra i primi Paesi europei a importare grandi quantità di gas sovietico tramite gasdotti che attraversavano l’Europa orientale. Questa dipendenza, inizialmente considerata un successo diplomatico, si è trasformata col tempo in una vulnerabilità strutturale.
L’invasione dell’Ucraina nel 2022 ha reso evidente questa fragilità. Nel giro di pochi mesi, l’Italia ha dovuto sostituire circa il 40% del suo fabbisogno di gas, prima coperto da Mosca. È stato il governo Draghi a muoversi rapidamente, firmando nuovi contratti con Algeria, Angola, Congo, Azerbaijan. Parallelamente, si è aperto il canale con gli Stati Uniti, che hanno offerto enormi quantitativi di GNL.
Il gas è quindi diventato una vera e propria moneta di scambio politico. Con la Russia era un vincolo geopolitico, con l’Algeria è una partnership di stabilizzazione regionale, con gli USA si trasforma in leva commerciale: più GNL americano compriamo, meno dazi sui nostri prodotti.
Il paradosso emerge già qui: invece di sfruttare la crisi ucraina per accelerare il passaggio alle rinnovabili e ridurre la dipendenza dall’estero, l’Italia ha scelto di sostituire un fornitore con altri, moltiplicando i legami di dipendenza.

IL MITO DEL GAS “PONTE” E LA REALTÀ DELLE INFRASTRUTTURE PERMANENTI
Il concetto di “fonte ponte” nasce negli anni 2000 come giustificazione tecnica e politica. L’idea era semplice: il gas emette meno CO₂ rispetto al carbone e al petrolio, e quindi può accompagnare la transizione mentre le rinnovabili si espandono. In teoria, questo ponte avrebbe dovuto durare un paio di decenni.
In pratica, il ponte è diventato un’autostrada senza fine.
Ogni nuovo rigassificatore, ogni nuovo gasdotto è un’infrastruttura con una vita utile di almeno 25-30 anni. Gli investitori e lo Stato stesso hanno bisogno di ammortizzare i costi: questo significa che il gas continuerà a scorrere nelle nostre reti ben oltre il 2040, quando l’Italia dovrebbe già essere quasi decarbonizzata.
Il caso del rigassificatore di Piombino è emblematico. Presentato come misura temporanea di emergenza per sostituire il gas russo, sarà in funzione per almeno 20 anni. Lo stesso vale per il futuro rigassificatore di Ravenna e per i potenziamenti del TAP e del Transmed.
Ciò crea un cortocircuito: mentre i piani climatici parlano di phase-out dei fossili, gli investimenti pubblici e privati costruiscono infrastrutture che di fatto rendono impossibile quel phase-out.

SOLDI PUBBLICI AL FOSSILE: ANATOMIA DI UN PARADOSSO
Il Ministero dell’Ambiente e Legambiente hanno stimato che i sussidi ambientalmente dannosi (SAD) in Italia ammontano a decine di miliardi l’anno.
Nel 2022, in piena crisi energetica, lo Stato ha speso quasi 95 miliardi per calmierare i prezzi dell’energia, gran parte dei quali a sostegno delle fonti fossili. Nel 2023 la cifra è scesa ma resta comunque impressionante: 78,7 miliardi, pari al 3,8% del PIL.
Questi soldi si traducono in:

  • taglio delle accise sui carburanti;
  • agevolazioni fiscali per imprese energivore;
  • incentivi per caldaie a gas nelle abitazioni;
  • capacity market per garantire alle centrali termoelettriche un reddito minimo;
  • garanzie pubbliche su nuove infrastrutture come rigassificatori e gasdotti.

Il messaggio è chiaro: lo Stato considera il gas e i fossili una priorità assoluta, tanto da socializzare i rischi e scaricare i costi sulla collettività.

RINNOVABILI IN CRESCITA: IL MOTORE PRIVATO CHE TRAINA LA TRANSIZIONE
Nonostante queste difficoltà, le rinnovabili hanno conosciuto un boom negli ultimi anni.
Nel 2023, gli investimenti privati hanno toccato 80,1 miliardi di euro, con utility, fondi infrastrutturali e persino aziende manifatturiere che scelgono i PPA (Power Purchase Agreements) per garantirsi energia verde a lungo termine.
I numeri di produzione sono altrettanto significativi: nel 2024, solare ed eolico hanno coperto oltre il 41% del fabbisogno elettrico nazionale, e nel primo semestre hanno persino superato le fossili, toccando il 52%.
Eppure, il sostegno pubblico resta molto più contenuto: solo 8,9 miliardi di incentivi nel 2024, in larga parte finanziati dalle bollette dei consumatori.
Il motore della transizione, dunque, è privato. Ma il privato non basta: senza infrastrutture di rete, accumuli e semplificazione burocratica, la crescita rischia di incepparsi.

L’“EFFETTO PARADOSSO”
Qui il nodo: lo Stato spende miliardi per rafforzare i fossili, mentre le rinnovabili – cioè ciò che servirebbe davvero per liberarci dalla dipendenza – vengono lasciate in mano ai privati.
È un meccanismo che socializza i rischi (il gas, con i suoi costi e la sua volatilità, è pagato dai contribuenti) e privatizza i benefici (le rinnovabili, che portano autonomia e riduzione delle emissioni, crescono solo grazie ai capitali privati).
Risultato: l’Italia si auto-condanna a rimanere indietro, mentre altri Paesi (Germania, Danimarca, Spagna) accelerano grazie a una politica pubblica decisa a puntare sulle rinnovabili.

LE RADICI STORICHE DEL PROBLEMA ITALIANO
Per capire questo paradosso bisogna guardare indietro.

  • Dopo il referendum degli anni ’80, l’Italia ha rinunciato al nucleare senza elaborare una strategia alternativa di lungo periodo.
  • L’Eni ha continuato a guidare la diplomazia energetica sul gas, consolidando legami con Libia, Algeria, Russia.
  • La liberalizzazione del mercato elettrico è rimasta incompleta, con grandi operatori a dominare il settore.
  • Le Sovrintendenze e i ricorsi amministrativi hanno rallentato lo sviluppo di parchi eolici e solari, trasformando ogni progetto in una battaglia legale.

Il risultato è un Paese abituato a considerare il gas come unica vera sicurezza.

I tubi sono allineati in mezzo a un campoEUROPA E GREEN DEAL: UN’OCCASIONE MANCATA?
L’Unione Europea ha fissato obiettivi chiari: -55% di emissioni entro il 2030, neutralità climatica entro il 2050.
L’Italia ha formalmente aderito, ma nei fatti si muove in ordine sparso. Il PNRR prevedeva miliardi per rinnovabili e reti, ma molti fondi sono stati dirottati o spesi lentamente.
Intanto, le pressioni politiche dei governi nazionalisti in Europa hanno rallentato il Green Deal, trasformandolo in una bandiera più che in un piano vincolante.
Se altri Paesi come la Spagna hanno saputo cogliere l’occasione, l’Italia si è limitata a gestire l’ordinario.

SOVRANITÀ ENERGETICA E GIUSTIZIA CLIMATICA
C’è un aspetto che raramente entra nel dibattito: la questione della sovranità, pur tanto declamata in ambienti governativi attuali.
Ogni euro speso per comprare gas all’estero rafforza Paesi produttori e indebolisce l’Italia. Ogni euro investito in solare ed eolico in patria resta in Italia, genera lavoro locale, rafforza l’autonomia.
C’è poi un aspetto etico: i sussidi ai fossili non sono solo inefficienti, ma anche ingiusti. Scaricano i costi della crisi climatica sulle generazioni future e sui Paesi più poveri, che pagano le conseguenze senza aver beneficiato dello sviluppo fossile.

LE VIE D’USCITA: COME RIBALTARE IL PARADOSSO
Il paradosso non è inevitabile. Si può invertire la rotta con alcune scelte concrete:

  1. Eliminare gradualmente i sussidi fossili, spostando risorse verso rinnovabili e accumulo.
  2. Creare sportelli unici per velocizzare le autorizzazioni degli impianti.
  3. Potenziare le reti elettriche e i sistemi di stoccaggio.
  4. Incentivare comunità energetiche e autoconsumo diffuso.
  5. Usare la diplomazia non per assicurarsi gas, ma per costruire alleanze industriali sulle rinnovabili.
  6. Fissare un obiettivo chiaro: ridurre del 70% l’uso di gas entro il 2035.

CONCLUSIONE
Il paradosso italiano non è una fatalità. È il frutto di scelte politiche precise, di una cultura energetica che continua a privilegiare il passato invece che costruire il futuro.
Finché miliardi pubblici verranno spesi per rafforzare il gas, e le rinnovabili resteranno affidate ai privati, la transizione resterà incompiuta.
Invertire questa logica significa restituire al Paese la sovranità energetica, rafforzarne la credibilità internazionale, e garantire alle generazioni future un futuro vivibile.
La vera domanda non è se l’Italia sia in grado di compiere questo salto, ma se avrà il coraggio politico di farlo.

Giuseppe d’Ippolito