L’anno della giustizia climatica è arrivato. Per troppo tempo, la lotta contro il cambiamento climatico è stata relegata ai tavoli della diplomazia, confinata nei documenti programmatici delle conferenze internazionali, spesso sterilizzata da dichiarazioni d’intenti senza efficacia vincolante. Eppure, mentre le emissioni globali continuavano a crescere e gli eventi climatici estremi devastavano interi territori, una nuova consapevolezza giuridica si è fatta strada: la crisi climatica non è solo una questione ambientale o economica, ma un problema giuridico, etico e costituzionale di portata epocale. Il 2025 segna un punto di svolta. In un solo mese, due decisioni di portata storica hanno inciso con forza nella carne viva del diritto: da un lato, la Corte di Cassazione italiana — a Sezioni Unite — ha confermato la piena giurisdizione del giudice nazionale nelle cause contro i responsabili del cambiamento climatico, legittimando di fatto le azioni civili contro le aziende fossili; dall’altro, la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia ha riconosciuto il riscaldamento globale come violazione dei diritti umani fondamentali, affermando obblighi giuridici stringenti per gli Stati in materia di prevenzione e contenimento del disastro climatico. Queste due pronunce, emerse da ordinamenti diversi ma unite da una visione comune, non sono episodi isolati. Esse rappresentano il coronamento di un lungo percorso giuridico, culturale e sociale: la trasformazione della “climate litigation” da battaglia pionieristica a strumento ordinario di giustizia e accountability globale. In gioco non c’è solo la responsabilità di chi inquina, ma la sopravvivenza stessa del patto costituzionale e democratico fondato sulla tutela della dignità umana, della salute, dell’ambiente, della solidarietà intergenerazionale. L’idea — un tempo ritenuta radicale — secondo cui uno Stato può essere chiamato a rispondere della propria inazione climatica, o una multinazionale può essere giudicata da un tribunale nazionale per i danni globali causati dalle sue emissioni, è oggi pienamente giustiziabile. Il diritto ha finalmente colmato il vuoto lasciato dalla politica. In questo articolo esploro nel dettaglio i contenuti e le implicazioni delle due pronunce che hanno inaugurato questa nuova era del diritto climatico: l’ordinanza n. 20381 del 21 luglio 2025 delle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, che ha rigettato l’eccezione di carenza di giurisdizione italiana in un giudizio climatico contro ENI S.p.A., e il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia del 23 luglio 2025, richiesto dalle Nazioni Unite, che ha sancito l’obbligo giuridico degli Stati di agire contro il cambiamento climatico in nome della protezione dei diritti umani fondamentali. Due decisioni. Due giurisdizioni. Un unico messaggio: non c’è più giustizia senza giustizia climatica.
Due decisioni epocali. Un’unica direzione: la tutela del clima come diritto fondamentale. Luglio 2025 passerà alla storia come il mese in cui il diritto ha finalmente parlato con voce chiara e autorevole in difesa del clima e delle generazioni future. Due eventi straordinari — l’ordinanza delle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione italiana n. 20381 del 21 luglio 2025 e l’attesissimo parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia (CIJ) del 23 luglio 2025 — hanno tracciato una traiettoria irreversibile: il cambiamento climatico è oggi, a tutti gli effetti, una questione giuridica e non più solo politica o tecnica.
Questi pronunciamenti aprono ufficialmente una nuova era: quella della giustizia climatica come fondamento dello Stato di diritto.
LA PRIMA SVOLTA: LE SEZIONI UNITE AFFERMANO LA GIURISDIZIONE ITALIANA SUL CLIMA
Il caso: Greenpeace e altri c. ENI S.p.A. e altri
L’ordinanza n. 20381/2025 delle Sezioni Unite trae origine da un procedimento avviato nel 2023 da un gruppo di associazioni ambientaliste e cittadini, guidato da Greenpeace, ReCommon e da dodici cittadine e cittadini contro Eni, Cassa Depositi e Prestiti e il Ministero dell’Economia e Finanze, contro ENI S.p.A., il Ministero dell’Economia e delle Finanze, il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica e altri soggetti.
La causa — nota come “La giusta causa” — si proponeva di ottenere l’accertamento della responsabilità civile dell’azienda per la sua storica e attuale contribuzione alle emissioni globali di gas serra, nonché una condanna all’adozione di misure di decarbonizzazione coerenti con l’Accordo di Parigi. Le ricorrenti chiedevano che il giudice italiano ordinasse la riduzione progressiva delle emissioni prodotte dall’azienda e dai suoi prodotti, affinché fosse rispettata la soglia di 1,5°C di riscaldamento globale.
La multinazionale e lo Stato convenuto hanno eccepito, tra le altre cose, il difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria italiana, in quanto la condotta lesiva sarebbe per lo più collocabile nel contesto internazionale e non potrebbe essere giudicata a livello domestico e dipendente da scelte politico-normative.
La decisione della Cassazione: la giurisdizione c’è, ed è piena
Con l’ordinanza n. 20381 del 21 luglio 2025 (cliccando qui, la pronuncia integrale), le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione hanno rigettato l’eccezione di difetto di giurisdizione, affermando con forza la competenza dei giudici italiani a conoscere delle controversie in materia di cambiamento climatico. Il pronunciamento, destinato a diventare un punto di riferimento giurisprudenziale, si fonda su alcune affermazioni di principio di straordinaria rilevanza:

- Il cambiamento climatico è un fenomeno globale, ma i suoi effetti sono territorialmente localizzabili, e ciò legittima la giurisdizione italiana quando il danno si verifica sul territorio nazionale.
- I diritti fondamentali delle persone — alla salute, alla vita, a un ambiente salubre, alla dignità — sono direttamente minacciati dalla crisi climatica, e ciò rende il giudice italiano tenuto alla loro tutela ex art. 24 e 32 Cost., oltre che sulla base dell’art. 8 della CEDU.
- La competenza giurisdizionale non può essere negata quando il comportamento contestato (anche se parzialmente svolto all’estero) produce effetti dannosi in Italia: è il principio del forum loci damni, espressamente riconosciuto anche dal diritto dell’Unione Europea (Regolamento Bruxelles I bis, art. 7).
- Il diritto ad agire per la protezione del clima rientra tra i diritti inviolabili della persona e i diritti diffusi, e può essere esercitato anche da associazioni e cittadini in rappresentanza di interessi collettivi.
Una svolta culturale e giuridica
L’ordinanza segna un vero spartiacque nella storia del diritto ambientale italiano: per la prima volta, la più alta giurisdizione civile riconosce esplicitamente l’ammissibilità e la legittimità delle cause climatiche promosse contro le aziende fossili, attribuendo ai giudici italiani il potere di intervenire — anche in via inibitoria — per limitare le emissioni climalteranti e proteggere l’interesse delle generazioni presenti e future.
È l’apertura di una nuova stagione, in cui il diritto diventa lo strumento principe della transizione ecologica.
LE PROSPETTIVE DELLA CLIMATE LITIGATION IN ITALIA DOPO IL 2025
Alla luce di questi due sviluppi, anche in Italia si apre un nuovo capitolo per il contenzioso climatico, sinora relativamente marginale rispetto ad altri Paesi europei. I principali scenari futuri includono:
- Azioni civili collettive contro imprese petrolifere, gasifere o cementiere, volte a ottenere misure di contenimento delle emissioni, oppure risarcimenti per danni da eventi estremi (ondate di calore, inondazioni, incendi);
- Ricorsi amministrativi fondati sull’inadempimento delle autorità pubbliche rispetto agli obiettivi climatici e di transizione ecologica, anche in relazione a piani urbanistici, energetici e infrastrutturali;
- Sinergie tra ordinamenti nazionali e strumenti sovranazionali, come la Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE, l’Accordo di Parigi, la Convenzione di Aarhus e le decisioni della Corte EDU e della Corte di Giustizia UE.
È plausibile che i giudici italiani, forti del recente avallo della Cassazione, inizino a ritenere ammissibili azioni che fino a pochi anni fa sarebbero state respinte per “carenza di legittimazione”, “assenza di interesse diretto” o “non giustiziabilità delle scelte politiche”. In questo senso, il diritto ambientale entra in una nuova fase dinamica, dove il principio di precauzione, la responsabilità sociale d’impresa e i diritti delle generazioni future diventano sempre più operativi nei giudizi ordinari.
LA SECONDA SVOLTA: LA CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA E IL DIRITTO A UN CLIMA STABILE
Il parere richiesto all’ONU: una risposta attesa da sei anni
Il 29 marzo 2023, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato la risoluzione A/RES/77/276, promossa dalla Repubblica di Vanuatu e sostenuta da oltre 130 Stati, con cui si chiedeva alla Corte Internazionale di Giustizia (CIJ) un parere consultivo sull’obbligo degli Stati in relazione alla tutela del clima.
Il quesito sottoposto alla CIJ verteva su due punti essenziali:
- Quali sono gli obblighi degli Stati in materia di cambiamento climatico, alla luce del diritto internazionale, dei diritti umani e del diritto consuetudinario?
- Quali sono le conseguenze giuridiche per uno Stato che, con le sue azioni o omissioni, causa danni significativi al sistema climatico, con effetti su altri Paesi e sulle generazioni future?
Il parere consultivo della CIJ del 23 luglio 2025: il cambiamento climatico viola i diritti umani
Con una pronuncia di 140 pagine, la Corte Internazionale di Giustizia ha risposto con un verdetto storico: il cambiamento climatico non è solo una crisi ambientale, ma costituisce una minaccia concreta e attuale ai diritti umani riconosciuti dal diritto internazionale.
Nel parere (CIJ, Advisory Opinion on the Obligations of States in Respect of Climate Change, 18 July 2025, cliccando qui, la pronuncia integrale), la Corte ha affermato:

- Gli Stati hanno l’obbligo giuridico positivo di prevenire ulteriori danni climatici, adottando tutte le misure ragionevoli per limitare le emissioni di gas serra.
- Tali obblighi derivano da principi consuetudinari del diritto internazionale, tra cui:
- il principio “no harm” (non arrecare danno ad altri Stati);
- il principio di equità intergenerazionale;
- il principio di responsabilità comune ma differenziata.
- Il fallimento nell’intraprendere azioni adeguate per contenere il riscaldamento globale costituisce una violazione dei diritti alla vita, alla salute e allo sviluppo, specialmente nei confronti dei popoli indigeni, dei minori e delle popolazioni vulnerabili.
- La Corte ha inoltre ribadito che gli obblighi climatici non sono esclusivamente “politici”, ma sono giuridicamente vincolanti anche in assenza di un trattato specifico, perché fondati su norme consolidate del diritto internazionale.
UNA NUOVA ERA PER LA GIUSTIZIA CLIMATICA
Dalla Cassazione alla Corte Internazionale di Giustizia, il messaggio è chiaro e inequivocabile: il diritto può e deve difendere il clima. I giudici non sono più meri osservatori dell’inerzia politica, ma diventano garanti attivi del futuro del pianeta.
L’ordinanza italiana e il parere internazionale si rafforzano reciprocamente: la prima apre i tribunali nazionali alla climate litigation, la seconda fornisce una cornice giuridica globale che legittima e sostiene tali azioni.
Un futuro di azioni legali, responsabilità e giustizia
Con questi precedenti, ci si può attendere un’esplosione di casi legali contro Stati e imprese che rifiutano di allinearsi ai parametri climatici. In Italia, il cammino è ora tracciato per ricorsi civili, azioni inibitorie, class actions e contenziosi ambientali strategici, come già accade in Olanda (caso Urgenda), Francia (Affaire du Siècle) e Germania (Verfassungsgericht 2021).
Le imprese fossili dovranno ora fare i conti con la giurisdizione italiana, e i governi saranno chiamati a rispondere del loro (in)operato.
IL DIRITTO È FINALMENTE DALLA PARTE DEL CLIMA
L’ordinanza delle Sezioni Unite e il parere della CIJ vanno letti come due tasselli complementari nel mosaico globale della giustizia climatica: il primo rafforza il ruolo della giurisdizione nazionale nella tutela del clima; il secondo impone un quadro interpretativo sovranazionale di riferimento per ogni sistema giuridico.
Siamo di fronte a un mutamento paradigmatico, in cui il diritto non è più spettatore passivo della crisi climatica, ma diventa attore protagonista, con strumenti idonei a chiedere conto a Stati e imprese delle loro condotte e omissioni.
Nel prossimo futuro, la climate litigation sarà sempre più ibrida, transfrontaliera e intergenerazionale. E l’Italia, grazie anche alla recente giurisprudenza, è pronta a svolgere un ruolo attivo in questa nuova stagione della giustizia ambientale.
Non è più tempo di alibi né di rinvii. Il diritto ha parlato, forte e chiaro. La protezione del clima è un dovere giuridico, una responsabilità politica e un imperativo etico. Nessuno — né Stati né aziende — potrà più dire di “non sapere” o di “non poter fare altrimenti”.
La giustizia climatica è diventata realtà. Ed è una realtà che si costruisce nelle aule dei tribunali, nella voce delle persone, nel coraggio dei giudici.
Giuseppe d’Ippolito


