L’agricoltura italiana non ha nemici esterni che la mettano in pericolo,
è essa stessa, condotta in modo iperproduttivo e volto alla esportazione,
la causa dei pericoli che la minano.

 Da un po’ di tempo si susseguono grida che, addirittura,  evocano il pericolo di scomparsa delle produzioni agricole italiane: da quelle lanciate durante la giornata nazionale dell’ortofrutta (Addio a 100 milioni di piante da frutto!), all’appello per il sostegno alla produzione di grano duro nazionale lanciato da un’organizzazione di agricoltori pugliese, alle dichiarazioni fatte un paio di giorni fa, in occasione del Macfrut (importante fiera del settore ortofrutticolo svolta a Rimini), dinanzi al presidente Mattarella a cui, un po’ paradossalmente, sono stati messi in evidenza i problemi conseguenti la siccità che ha colpito negli scorsi mesi l’agricoltura dell’area, proprio mentre si stava verificando un nubifragio che avrebbe fatto cadere in due giorni la stessa quantità di pioggia che sarebbe dovuta scendere nei mesi precedenti.

Le piante da frutto sarebbero scomparse nel corso del quindicennio trascorso per la perdita di 100.000 ha di coltivazioni. Ma quale è la causa? Non si citano l’utilizzo della superficie agricola a fini diversi, l’urbanizzazione selvaggia e, alla base di tutto, il sistema economico del libero mercato che, finalizzando tutto al massimo profitto, concentra le produzioni ove esiste maggiore redditività, spesso fuori d’Italia.

Si tratta della stessa concorrenza selvaggia che porta nei prodotti di largo consumo (pasta, panetteria e biscotti) il grano di basso costo (e peggiore qualità) che mette in crisi gli agricoltori (italiani e polacchi) , ma non l’industria alimentare di settore –dominata dai marchi italiani– che ieri sfruttava il prodotto proveniente da altre zone del pianeta ed oggi sfrutta le partite importate dall’Ucraina. Vi ricordate la campagna per sbloccare il grano presente nel porto di Odessa? Bisognava inviarlo alle popolazioni africane bisognose, ma quasi sicuramente è finito tra i prodotti d’esportazione per tutto il mondo, anche da noi, ovviamente.

Ci sono alcuni temi come la scomparsa delle colture o la crisi di alcuni settori che sono pericolosamente utilizzati per tutelare un sistema di mercato (causa reale della crisi) anche con motivazioni “ecologiche”, paventando il degrado ambientale come conseguenza della ridotta capacità di assorbimento di CO2: una pianta adulta cattura 100/250 gr di polveri e smog l’anno e meno piante significa avere meno disinquinamento. Un discorso valido se si trattasse di piante dove non esiste l’intervento dell’uomo; ma un frutteto non nasce ad impatto zero, poiché la quantità di smog che si realizza per ottenere le produzioni agricole (tra quello necessario per gli input produttivi a quello per la loro distribuzione) riduce di molto la capacità di assorbimento: lo sanno bene gli agricoltori e le popolazioni che vivono nelle aree a più alta concentrazione produttiva.  Per questo è essenziale sviluppare un discorso agro-ecologico, in cui la riduzione degli input (e quindi la riduzione di inquinanti) si unisce alla maggiore presenza di piante sul territorio.

Motivate da nobili fini “ecologici” vanno annoverate anche le richieste, oggi molto pressanti, di sostegno nelle zone colpite da “disastri ambientali”, di creazione di invasi che servirebbero a raccogliere ed irreggimentare le acque, di sovvenzioni volte a tutelare l’agricoltura, considerata – così com’è – guardiano del territorio. Anche in questo caso vi sono incongruenze e non detti che occorre chiarire, sfatando diversi luoghi comuni.

Le alluvioni di qualche giorno fa hanno colpito la zona emiliano-romagnola, punta avanzata delle produzioni agricole italiane. Che sia stata colpita quest’area, la dice lunga sulla debolezza del sistema messo in piedi. Così come il Covid colpì più duramente la regione Lombardia con il sistema sanitario più “avanzato”, mostrando l’incapacità di tutelare con tale sistema la massa delle popolazioni, oggi i danni causati da un evento per nulla imprevedibile, mostrano l’incapacità dei sistemi ad alta intensità produttiva di tutelare il territorio e, con esso, le popolazioni residenti. Si tratta di ripensare tutto il sistema produttivo, eliminando dalla prospettiva la presenza di territori con superfici coltivate con un solo tipo di coltura, addirittura con una solo varietà, peggio, con piante tutte derivate da un solo clone.  La soluzione che i fautori di questa programmazione danno è, assolvendo se stessi da qualunque responsabilità, di aumentare gli investimenti e la dipendenza da meccanismi gestiti da altri (come nel caso della gestione delle acque e degli invasi) aumentandone la presenza sul territorio: è come se dinanzi ad un soffitto bucato aumentassimo il numero di bacinelle sotto i buchi.

Sarebbe necessario ridurre la pressione produttiva, differenziare le produzioni e le colture, inserendo nella stessa area piante con apparati radicali di varia profondità, di diverso comportamento rispetto alle piogge ed alle temperature, capaci di realizzare concretamente la resilienza; invece si cerca sempre qualcosa che rappresenti la soluzione finale, da vendere agli agricoltori attraverso un marchio brevettato.

Il discorso economico è ancora più falsato. Un zona, un settore produttivo, entrano in crisi: allora se ne cercano le cause tra quelle “naturali” (una malattia, una siccità, un’inondazione) ed è inutile aggiungere che in questi casi si qualifica la zona come “colpita da calamità naturale”, a cui subentra la dichiarazione di stato di emergenza ed il conto dei danni, senza nessun altro provvedimento che tenda a rimuovere le cause profonde. Per situazioni di crisi non attribuibili a cause “naturali”, ci si affanna nella ricerca del colpevole, quasi sempre un agente esterno, un nemico delle nostre produzioni che, neanche a dirlo, sono le migliori; infine, tutto ciò attenta al nostro modo di essere, al made in Italy, fiore all’occhiello del nostro export, alla cultura italiana. 

Anche se il discorso sembra paradossale e potrebbe far sorridere, pure, esso viene proposto in termini simili da autorevoli esponenti del mondo agro-alimentare che, dinanzi ai cambiamenti climatici, non sanno mostrare di meglio che sorpresa per il cosiddetto “tragico evento” a cui, di volta in volta, contribuirebbero persino gli animali, espressione di quella “natura selvaggia” che la nostra civiltà cerca di dominare.

Senza un filo di ironia alcuni hanno attribuito nei giorni scorsi il cedimento degli argini in Emilia Romagna a nutrie ed istrici che con le loro gallerie avrebbero minato le opere di bonifica. Le impese, il sistema di filiera, la forsennata ricerca di esportazione delle produzioni sono gli strumenti proposti al posto di garantire una migliore qualità ed una sicurezza di reddito alla vendita locale dei prodotti. In quanto alla propensione ecologica delle imprese, spesso essa si riduce a trovare adeguate compensazioni con contributi straordinari o con “titoli” per poter risanare o inquinare altrove.

L’agricoltura italiana non ha nemici esterni che la mettano in pericolo, è essa stessa, condotta in modo iperproduttivo e volto alla esportazione, la causa dei pericoli che la minano. Questo tipo di agricoltura è il pericolo e rimuovere le cause richiede almeno l’umiltà di ammettere errori passati, sottovalutazioni, mancanza di previsioni e programmazione e, infine, assenza di manutenzione, elemento principe della conservazione dell’esistente. La situazione di alternanza di periodi siccitosi a nubifragi è la manifestazione del mutamento del clima e serve riuscire a convivere con tali situazioni che, prevedibilmente, si susseguiranno nei prossimi decenni.

Gli unici che sembrano preoccuparsi sono i giovani di Fridays For Future o di Ultima Generazione le cui azioni, per quanto non totalmente condivisibili, sono le uniche a segnalare l’assenza su questo terreno, delle istituzioni e delle organizzazioni sociali (sindacati dei lavoratori e d’impresa)

Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti

 

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