Spiegare in poche righe la relazione tra il cambiamento climatico e il prezzo dei prodotti petroliferi è un’impresa quasi impossibile ma utile se si vuole comprendere la necessità della lotta al cambiamento climatico. 

E la partenza di tutto è il petrolio, la sostanza prodotta da vegetali distrutti e sepolti nelle viscere della terra alcune centinaia di milioni di anni fa, che ha permesso, oltre al suo impiego diretto, la creazione della plastica. Plastica e petrolio sono i due elementi che contraddistinguono la rivoluzione industriale del XX secolo, non solo per le caratteristiche tecnico industriali e per la loro diffusione capillare ma anche per la loro storia che non potrebbe rappresentare in modo più significativo la nostra società. Essi sono l’energia e la materia ed hanno permesso lo sviluppo economico del secolo scorso poiché attraverso il petrolio è stata resa disponibile in modo rapido ed a costi limitati (inferiori a quelli necessari per l’estrazione del carbone) una enorme quantità di energia, mentre la plastica (ricavata dal petrolio) è stato il materiale utilizzato per manufatti di ogni genere a basso costo, caratterizzati da versatilità e leggerezza, un binomio che ha permesso l’esplosione dei consumi e la mentalità consumista che contraddistingue le società dell’attuale mercato globale. Il mezzo attraverso cui questa diffusione è potuta avvenire è il danaro organizzato attraverso il sistema finanziario.

Il petrolio è una materia prima (commodity, in gergo) che attualmente viene scambiata nel mercato finanziario attraverso contratti futures, quotato su due mercati distinti (NYMEX – New York Mercantile Exchange – di New York, e l’ICE Futures Europe – Intercontinental Exchange – situato a Londra). È evidente che gli aspetti finanziari caratterizzano in modo sostanziale il suo mercato. Si tratta dell’evoluzione verificatasi nella seconda metà del 20° secolo poiché, dalla struttura del prezzo fissato in base a quello del greggio offerto negli Stati Uniti (un’area ad alto costo) dalle grandi raffinerie ai produttori indipendenti, dopo lo shock petrolifero del 1973, si è passato al controllo  dell’OPEC (Organization of the petroleum exporting countries, che raccoglie tutti i principali paesi produttori del Medio Oriente tranne l’Omān) che decise di avocare a sé sia il volume di produzione sia il prezzo, per mantenere il primo più basso possibile e più alto il secondo, aumentando così la quota del Paese produttore. Questa decisione, che causò la penuria di prodotto in Italia e le prime domeniche senz’auto, ebbe ulteriori e più importanti conseguenze: attirati dai possibili guadagni, grandi masse di capitali si cimentarono nel mercato spot, una forma di commercio ad alto rischio che consistette nell’acquistare e vendere i lotti di petrolio nel punto in cui si trovavano le navi di trasporto i quel momento, indirizzando poi la nave verso questo o quel compratore; si trattava di una   specie di “verifica” sul prezzo accettabile, come quando si gioca a poker e si vanno a “vedere le carte” e come in questo caso, si poteva vincere o perdere molto. Questa sostanziale corsa al rialzo si arrestò nel 1985, quando l’Arabia Saudita legò il proprio greggio a quello del giacimento Brent del Mare del Nord e causò il crollo del prezzo e il commercio spot fornì le basi per il passaggio al mercato dei futures, che rappresenta lo scenario attuale.

I futures si basano su due tipi di petrolio greggio “leggero”, il West Texas intermediate (WTI) e il Brent, che rappresentano una piccola percentuale della produzione globale ma attirano compratori e venditori, in grande maggioranza speculatori, che trattano con un prezzo pattuito per consegna fissata dopo determinati giorni, mesi o anni. Questa clausola permette di rinegoziare le diverse partite un numero molto elevato di volte, realizzando un enorme numero di transazioni (in un giorno di mercato si scambia in teoria più dell’intera produzione petrolifera di un anno) e rappresenta un’area importante per capitali di rischio alla ricerca di un impiego remunerativo. Dobbiamo ricordare che questo gioco rischioso viene praticato su tanti prodotti e persino su molti servizi e non dobbiamo meravigliarci se le grandi società d’investimento giocano su diversi tavoli. 

Il calo del rendimento dei titoli di Stato o delle obbligazioni produce un flusso di capitali che escono da quei titoli ed entrano nei futures petroliferi, producendo un aumento della domanda (fittizia, perché non comporta una reale richiesta di prodotto, ma ne aumenta il prezzo), e viceversa. Ora che i tassi sono aumentati, è probabile si verifichino spostamenti. 

Pertanto, il mercato del greggio è un mercato speculativo estremamente sensibile alle più piccole variazioni delle aspettative dei singoli negoziatori, che molto spesso rispondono alle aspettative non tanto del mercato petrolifero quanto di quello finanziario (mercato in cui tassi d’interesse, inflazione, tassi di cambio sono importanti). 

Anche in questo caso la situazione progressivamente creatasi ha prodotto trasformazioni sostanziali tra tutti gli operatori: le compagnie petrolifere ormai non gestiscono più il mercato del greggio (si dice sono diventate price takers, mentre in precedenza erano price makers) e non puntano più all’integrazione della filiera produttiva (ricerca, estrazione, trasporto, vendita); l’OPEC controlla il volume della produzione, ma tutti ormai si disinteressano di problemi come il trasporto e la raffinazione (quelli che incidono più direttamente sulle nostre vite) che sono diventati dei costi correnti – variabili – e non investimenti (ecco che una raffineria come Priolo, che fu in origine un investimento dello stato italiano tramite ENI, diventa un prodotto “commerciale” da cedere a terzi per la gestione). Persino la ricerca e l’estrazione sono affidate a terzi e le compagnie mantengono solo le funzioni decisionali e i negoziati con i paesi produttori. In pratica, ogni compagnia petrolifera controlla il sistema di lettura per via elettronica di tutte le linee sismiche (sistema play-back) del proprio archivio, aumentando così la capacità di scoprire nuovi giacimenti. Nel mercato petrolifero le compagnie operano spesso attraverso traders, venditori e compratori, i quali hanno una posizione di indipendenza e sono un autonomo centro di profitto dentro l’impresa, potendo vendere tutta la produzione, scegliendo la possibilità più conveniente dal punto di vista del profitto per ottenere ciò che serve alla società per la raffinazione e la distribuzione dei prodotti.

È importante capire che le società petrolifere partecipano al mercato dei futures come qualsiasi altro operatore e la tendenza alla professionalizzazione dei traders le ha influenzate al punto che si comportano allo stesso modo delle grandi organizzazioni finanziarie e bancarie operanti su questo mercato.

Alla fine di questa spiegazione ci si potrebbe chiedere: ma i problemi di inquinamento diretto ed indiretto del petrolio, quello degli effetti derivati dalla combustione del petrolio, con l’immissione nell’atmosfera di CO2 e altre sostanze, per non parlare dei problemi prodotti dalla plastica, dove sono finiti in questa grande mobilitazione di capitali? Sono tassativamente ignorati, anzi, sono stati trasformati in una ulteriore forma di guadagno con il mercato dei “diritti di inquinamento”, detto mercato degli ETS. 

Forse è persino pleonastico cercare di capire quanto questo intervento durato poco più di un secolo abbia modificato i trend del clima terrestre. Appurato che esso incide, anche minimamente, dobbiamo intervenire per limitare questo apporto che, per quanto ci riguarda, peggiora notevolmente le prospettive di vita delle prossime generazioni.  E dobbiamo farlo partendo da ciò che è in nostro completo potere: il mercato finanziario. 

Far dipendere la vita di miliardi di persone dal gioco finanziario (cioè virtuale) di alcune (poche) società è il frutto della storia del XX secolo, che ha visto nelle guerre e nella diffusione di due prodotti (automobile e plastica) lo strumento per realizzare questa dipendenza. 

Dinanzi a tale dimensione, discutere se i prezzi alla pompa dipendano da alcuni “untori” che aumentano arbitrariamente di centesimi quello di vendita o se riducendo le accise si possa incidere sulla tendenza del mercato, vuol dire pensare di poter svuotare il mare con un secchiello.  

La difesa dalla estrema volatilità strutturale del prezzo del greggio può essere operata solo sottraendo i consumatori alla necessità del consumo di petrolio e chiedendo all’offerta, le società petrolifere ormai diventate società finanziarie, di avviare investimenti in attività che stabilizzino i prezzi dell’energia e rendano il costo di produzione più basso, sia perché possibile presso i luoghi di consumo,  sia perché privo di quei costi occulti che l’inquinamento da petrolio produce. 

Per giungere a fatti più vicini a noi, la situazione attuale del prezzo dei carburanti (per il gas il discorso è simile) non è un’emergenza, ma un elemento strutturale con cui convivere e da cui difendersi.

Unica tra tutte le associazioni dei consumatori l’ACU, nell’incontro con il Ministro delegato a trattare questa patata bollente, ha espresso la sua insoddisfazione per le misure previste mettendo in evidenza alcuni aspetti:

Non esiste attualmente una strategia per il prezzo dei carburanti sul mercato, ma esistono solo misure di contenimento e un aumento dei controlli e delle multe. Siamo d’accordo per una maggiore trasparenza del mercato e per la riduzione o annullamento dell’IVA (provvedimento che renderebbe meno iniquo l’aumento del prezzo per i redditi bassi e quelli fissi, che non hanno modo di scaricare l’IVA) al fine di stabilizzare il prezzo alla pompa.  Ma non sarà certo questo intervento tampone, o la minaccia di maggiori controlli e sanzioni, a frenare la corsa dei prezzi. È necessario affrontare l’aumento generalizzato dei prezzi, fatto centrale che non dipende unicamente dall’aumento di quello del carburante.

Sul fronte dell’offerta al dettaglio dei carburanti, non si propongono strategie che permettano un coordinamento delle imprese, almeno a livello nazionale, che spinga al contenimento dei prezzi. Ma è evidente l’assenza di una proposta a livello UE che istituisca un mercato comune dell’energia i cui tempi sono ormai maturi e, a livello nazionale, una che responsabilizzi e coinvolga l’ENI, società in cui lo Stato ha un peso preponderante e che ha una posizione in grado di orientare il mercato stesso. Sarebbe significativo, a livello simbolico, parlare con ENI, specie ora che lancia una nuova immagine e un pacchetto azionario in vendita, e proporre un gesto che orienti il mercato.

Sul fronte della domanda non è stata proposta alcuna strategia per la riduzione della pressione dei consumatori: alle persone che, senza alternative, devono utilizzare l’auto per spostarsi quotidianamente, cosa si offre? Parliamo di misure che riducano rapidamente il parco auto inquinanti circolante, che permettano di convertire i motori utilizzati, che potenzino l’impiego di energie alternative di trazione, che sostengano il trasporto pubblico. 

L’attuale situazione non è un’emergenza; si tratta di una situazione che, a nostro avviso, sarà normale nel futuro prossimo, fase in cui il cambiamento climatico modificherà i nostri comportamenti ed in cui il Covid e le guerre in corso (diciamo meglio con Papa Francesco, la terza guerra mondiale in corso) creeranno le condizioni per l’aumento dei prezzi e la speculazione.

Infine riteniamo che la strategia di confronto utilizzata, creando tavoli tecnici separati tra i distributori (benzinai), i sindacati e i consumatori, risulti utile per provvedimenti di emergenza, mentre ora riteniamo opportuno un unico tavolo permanente e strategico che affronti il problema dell’aumento dei prezzi e dell’inflazione e che coinvolga associazioni di impresa, sindacati, associazioni consumatori, associazioni ambientaliste e del terzo settore. 

Quella che si è prodotta non è un’emergenza che va superata, non è il frutto di speculazione generalizzata, ma una direzione del mercato dei carburanti, punta della tendenza generale dei prezzi che va modificata radicalmente per dare un futuro al Paese ed all’Europa.

Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti