Per mesi si è continuato a ripetere che lo stop ai motori endotermici dal 2035 fosse “salvo”. In realtà, mentre lo slogan restava intatto, la sostanza veniva progressivamente smontata. Senza un annuncio formale, senza assumersi la responsabilità politica di dire che quella promessa non era più sostenibile, l’Unione europea ha scelto una strada più comoda: lasciare la data e cancellare il divieto. Questo articolo ricostruisce come e perché il 2035 sia diventato un guscio vuoto, chi ha spinto per questa retromarcia e quale messaggio politico ne deriva: quando la transizione ecologica entra in conflitto con interessi industriali consolidati, l’Europa preferisce rinviare piuttosto che scegliere.
Lo stop ai motori endotermici dal 2035 è morto. Non in un voto solenne, non con un annuncio ufficiale, ma nel modo più tipico della politica europea quando manca il coraggio: svuotandolo senza dichiararlo. Il risultato è un capolavoro di ipocrisia istituzionale: la data resta, il divieto no.
Per anni l’Unione europea ha venduto il 2035 come una svolta irreversibile. Un punto di non ritorno nella transizione ecologica, un segnale chiaro all’industria e ai cittadini. Oggi sappiamo che era soprattutto un artificio comunicativo. Quando quel punto è diventato politicamente scomodo, è stato semplicemente riscritto.
DAL REGOLAMENTO AL COMPROMESSO PERMANENTE
Il regolamento (UE) 2023/851 fissava un obiettivo inequivocabile: dal 2035, riduzione del 100 per cento delle emissioni di CO₂ per le nuove auto e i nuovi furgoni. In termini giuridici e pratici, questo equivaleva a un divieto totale di immissione sul mercato di veicoli con motore a combustione interna. Non una raccomandazione, non una cornice flessibile, ma una regola direttamente applicabile.
La revisione oggi in corso – formalmente giustificata dalla clausola di riesame – trasforma quell’obiettivo del 100 per cento in un obiettivo di riduzione del 90 per cento. È questo il passaggio chiave, politicamente decisivo: non più “zero emissioni”, ma una soglia che consente emissioni residue strutturali, gestite attraverso medie di flotta, compensazioni, tecnologie alternative e deroghe implicite.
Qui sta il nodo che viene sistematicamente rimosso dal dibattito pubblico. La differenza tra il 100 per cento e il 90 per cento non è quantitativamente marginale, ma giuridicamente e climaticamente dirimente. Il –100 per cento equivale a un divieto assoluto, perché non consente alcuna emissione allo scarico. Il –90 per cento, invece, istituzionalizza una quota residua di emissioni, rendendo strutturalmente ammissibili veicoli non a zero emissioni attraverso medie di flotta, compensazioni e tecnologie “alternative”. Dal punto di vista climatico, questa impostazione è incompatibile con una traiettoria di neutralità al 2050; dal punto di vista normativo, trasforma un obbligo chiaro in un obiettivo negoziabile. In termini politici, segna il passaggio da una scelta vincolante a una gestione discrezionale del rinvio.
E proprio perché non si tratta di una direttiva, ma di un regolamento, il segnale è ancora più grave. Se anche gli atti più vincolanti diventano politicamente rivedibili prima ancora di entrare pienamente in vigore, allora l’architettura climatica europea è fragile non sul piano tecnico, ma su quello della volontà politica.
LA NEUTRALITÀ TECNOLOGICA COME COPERTURA IDEOLOGICA
La parola d’ordine è sempre la stessa: “neutralità tecnologica”. Una formula elegante per non scegliere. Ma nel contesto climatico, non scegliere equivale a proteggere l’esistente.
L’elettrico non era una fissazione ideologica: era l’unica strada coerente con gli obiettivi climatici e industriali. Gli e-fuel sono una nicchia costosa, i biocarburanti pongono problemi ambientali e di scala, gli ibridi reali emettono molto più di quanto dichiarato. Tutto questo è noto. Fingere che tutte le tecnologie abbiano lo stesso peso significa mentire per omissione.
La neutralità tecnologica non è stata usata per innovare, ma per salvare il motore a combustione, simbolo industriale e politico di un’Europa che non vuole affrontare la propria perdita di centralità tecnologica.
I RESPONSABILI HANNO NOMI E BANDIERE
Non è stata “l’Europa” in astratto a fare marcia indietro. Sono stati governi precisi.
La Germania ha aperto la breccia già nel 2023, imponendo l’inserimento degli e-fuel come condizione politica per non bloccare l’intero pacchetto. Un atto di forza a tutela di una filiera nazionale in difficoltà, non di una strategia climatica.
L’Italia ha fatto il resto, costruendo una campagna politica contro lo stop ai motori endotermici in nome di un’industria che, in realtà, non ha mai ricevuto una vera strategia di riconversione. Retorica sovranista, zero visione industriale.
A completare il fronte del rinvio: Polonia, Repubblica Ceca e altri Stati dell’Est, contrari a qualsiasi obbligo percepito come costo sociale immediato. Nessuna proposta alternativa strutturale, solo resistenza.
Il risultato è una maggioranza di blocco che ha imposto alla Commissione una linea di “realismo” che coincide, guarda caso, con l’immobilismo.
IL GREEN DEAL COME MERCE NEGOZIABILE
Questa vicenda segna un passaggio politico chiave: il Green Deal non è più una strategia, ma una riserva di simboli da ridimensionare quando serve. Non si nega il cambiamento climatico, lo si amministra. Non si rinuncia agli obiettivi, li si rende compatibili con il rinvio permanente.
Il problema non è solo ambientale. È democratico. Ai cittadini è stato detto che il 2035 era una scelta necessaria. Alle imprese è stato chiesto di investire. Ora si dice che tutto è rinegoziabile. Chi pagherà il prezzo di questa incoerenza? Non certo chi ha rallentato.
IL MESSAGGIO FINALE: IL CLIMA PUÒ ASPETTARE
Il messaggio politico che emerge è brutale nella sua semplicità: quando la transizione ecologica entra in conflitto con interessi industriali consolidati, vince l’industria. Il clima può aspettare, le scadenze si spostano, le promesse si riformulano.
Il 2035 resterà probabilmente nei documenti, nelle slide, nei discorsi ufficiali. Ma non sarà più una soglia invalicabile. Sarà l’ennesima data europea che “dipende”, “si valuta”, “si adatta”.
E quando una politica climatica ha bisogno di troppe spiegazioni, significa che ha già smesso di essere una politica di trasformazione.
Hèléne Martin


