La COP30 di Belém è stata presentata per mesi come l’appuntamento destinato a segnare una svolta nella governance climatica globale. Il luogo stesso, nel cuore dell’Amazzonia brasiliana, caricava il vertice di un significato quasi epico: discutere del futuro del pianeta nel laboratorio vivente che più di tutti incarna il fragile equilibrio tra attività umane e salute degli ecosistemi. Con la foresta pluviale sotto pressione, la diplomazia internazionale avrebbe potuto – e forse dovuto – compiere un atto di coraggio politico, traducendo in decisioni vincolanti gli allarmi pressanti della scienza. Eppure, quando i lavori si sono conclusi, la sensazione prevalente non è stata quella di aver assistito a un punto di svolta, ma a un ennesimo rituale di diplomazia climatica in cui la retorica dell’urgenza ha nuovamente prevalso sulla concretezza dell’azione. Il paradosso è apparso evidente fin dai primi giorni: negoziati condotti nella capitale simbolica della biodiversità mondiale, ma risultati finali incapaci di affrontare i nodi reali che alimentano la crisi ambientale, primo fra tutti la dipendenza globale dai combustibili fossili. La distanza tra ciò che la scienza chiede e ciò che la politica concede si è mostrata ancora una volta in tutta la sua drammaticità. Da un lato, gli studi più recenti indicano che la finestra per mantenere il riscaldamento entro 1,5 gradi si sta chiudendo rapidamente; dall’altro, i governi continuano a rifugiarsi in formule generiche, promesse a medio termine e impegni volontari che non modificano in modo sostanziale le traiettorie emissive. Il risultato è una narrazione pubblica che appare sempre più disallineata dalla realtà fisica: conferenze che parlano di “transizione” mentre la transizione stessa viene rinviata. Tutto ciò è reso ancora più grave dal contesto politico e geopolitico del 2025. In un mondo segnato da tensioni internazionali, guerre regionali e una crescente sfiducia nel multilateralismo, la COP30 rappresentava un test per verificare se la comunità internazionale fosse ancora capace di produrre decisioni collettive all’altezza della crisi climatica. Ma la conferenza di Belém non ha mantenuto le aspettative: ha preservato la forma del dialogo, senza però riuscire ad agire sul contenuto. Le assenze dei leader dei maggiori emettitori, la fragilità degli impegni finanziari e il mancato accordo su un phase out dei combustibili fossili sono segnali di un sistema negoziale che fatica a rinnovarsi e ad affrontare gli interessi economici che frenano il cambiamento. In questo senso, la COP30 non è stata solo un’occasione mancata: è stata una fotografia fedele delle contraddizioni del nostro tempo. Mentre gli impatti climatici diventano sempre più devastanti – siccità estreme, inondazioni, incendi, migrazioni forzate – la politica globale si muove ancora con la lentezza di un compromesso perenne, dove nessuno vuole essere il primo a cambiare davvero. In definitiva, il vertice di Belém è finito per essere un evento ricco di simboli, ma povero di coraggio; intenso nelle dichiarazioni, ma debole nelle decisioni; atteso come una svolta e rivelatosi invece l’ennesimo passo esitante di una governance climatica che sembra temere più le conseguenze del cambiamento che quelle dell’inazione.

 

La COP30, ospitata a Belém do Pará, nel cuore dell’Amazzonia, avrebbe dovuto essere la conferenza della svolta. Dopo un decennio di rinvii, compromessi e timidezze, il clima politico ed economico globale lasciava immaginare che il vertice del 2025 potesse finalmente imprimere una direzione inequivocabile alla transizione ecologica. Invece, ciò che rimane della COP30 è un impasto di promesse non vincolanti, ambizioni diluite, frustrazioni politiche e un simbolismo che non riesce a compensare la distanza abissale tra scienza e decisioni negoziali.
La scelta del Brasile come Paese ospitante aveva fatto sperare in un cambio di ritmo. Il governo aveva annunciato un vertice “storico”, un momento di riavvicinamento tra politica climatica, giustizia ambientale e diritti delle popolazioni indigene. L’immagine di Belém sulle rive del Rio delle Amazzoni era potente: un luogo-simbolo di ciò che si ha da perdere e di ciò che occorre proteggere. Tuttavia, se sul piano comunicativo la COP30 ha funzionato, sul terreno politico ha mostrato tutti i suoi limiti.

IL GRANDE ASSENTE: UN IMPEGNO GLOBALE E CHIARO SUI COMBUSTIBILI FOSSILI

fumo bianco che esce dall'edificioLa delusione più grande riguarda, ancora una volta, il tema più urgente e più rimandato: l’eliminazione graduale dei combustibili fossili. Da anni la comunità scientifica afferma che senza una riduzione rapida e programmata di carbone, petrolio e gas non sarà possibile mantenere l’aumento della temperatura sotto 1,5 gradi. Allo stesso tempo, i Paesi produttori e le lobby energetiche continuano a esercitare una influenza decisiva nel bloccare qualunque passo in avanti.
Il risultato è che anche a Belém è mancato l’impegno politico minimo necessario: il testo finale non prevede nemmeno un riferimento vincolante a un phase out graduale, né un target di riduzione, né un calendario condiviso. Tutto ciò che si è ottenuto è una “roadmap volontaria” lanciata dalla presidenza brasiliana ma non inserita nel documento ufficiale. Una promessa parallela, priva di forza normativa, frutto di compromessi al ribasso che riflettono le tensioni profonde tra chi vuole mantenere lo status quo e chi invoca un’azione rapida e sistemica.
Le delegazioni che spingevano per un impegno chiaro erano numerose: Unione europea, piccole isole, diversi Paesi africani e latinoamericani. Ma la resistenza dei produttori di petrolio e gas, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Russia, ha di nuovo paralizzato i negoziati. Una dinamica che ormai si ripete in ogni COP e che mina la credibilità stessa del processo multilaterale.

LA FINANZA CLIMATICA: PROMESSE ALTE, STRUTTURA DEBOLE
pianta verde in vaso di vetro trasparenteUn altro punto che ha generato aspettative e frustrazione è la finanza climatica. La COP30 ha annunciato una triplicazione dei fondi per l’adattamento climatico entro il 2035 e un obiettivo complessivo di 1.300 miliardi di dollari all’anno per mitigazione e adattamento. Sulla carta, una svolta. Nella pratica, un annuncio pieno di interrogativi.
I Paesi in via di sviluppo hanno accolto con favore il riferimento quantitativo, ma hanno immediatamente denunciato l’assenza di una struttura chiara: chi pagherà? con quali criteri? in che proporzioni? sotto quale forma (prestiti? sovvenzioni? debito ristrutturato?)?
A Belém queste domande non hanno trovato risposta. E il ricordo amaro dell’obiettivo dei 100 miliardi – promessi nel 2009 e raggiunti con enorme ritardo, a volte con contabilizzazioni creative – pesa come un macigno.
Il rischio è che la cifra promessa resti un ancoraggio retorico più che una realtà finanziaria. I Paesi vulnerabili ne sono consapevoli e non nascondono il loro malcontento. Basta ascoltare alcune dichiarazioni dei rappresentanti delle piccole isole: “Non possiamo più vivere di speranze, abbiamo bisogno di garanzie”.
Il fondo per le perdite e i danni (loss and damage), inoltre, resta largamente sottodimensionato. Gli eventi estremi del 2024 e del 2025 hanno provocato danni incalcolabili in decine di regioni del mondo, e il fondo attuale è semplicemente insufficiente: una goccia in un oceano di necessità.

LA POLITICA CONTINUA A INSEGUIRE, NON A GUIDARE
Uno dei giudizi più amari provenienti dalle ONG e da molti osservatori riguarda il divario tra ciò che oggi è tecnologicamente possibile e ciò che la politica si ostina a negoziare. Le rinnovabili crescono più rapidamente delle previsioni. La mobilità elettrica avanza. Le infrastrutture energetiche stanno cambiando forma. Ma i negoziati internazionali non riescono a cogliere queste trasformazioni, anzi sembrano costantemente in ritardo rispetto ai mercati e, soprattutto, rispetto alle evidenze scientifiche.
La COP30 avrebbe dovuto essere il momento della verità, il punto in cui la comunità internazionale riconosceva che la finestra di opportunità per mantenere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi si sta chiudendo rapidamente. Invece, gli aggiornamenti dei contributi nazionali (NDC) sono stati parziali, modesti, a volte meramente cosmetici. Molti dei grandi emettitori non hanno portato nuovi piani ambiziosi e alcuni, come Stati Uniti, Cina e India, non hanno neppure partecipato al vertice al massimo livello politico.
Se i maggiori attori climatici si tengono lateralmente, la COP diventa un luogo di dialogo, ma non una sede di decisioni decisive. Il multilateralismo, per sopravvivere, deve essere efficace: mantenere aperto il tavolo non basta più.

L’OMBRA DELLA LOGISTICA E IL PARADOSSO DEI GENERATORI DIESEL
Una conferenza sul clima organizzata nel cuore dell’Amazzonia dovrebbe essere un simbolo potente di coerenza e integrità. Invece, numerose testate hanno documentato un paradosso imbarazzante: l’utilizzo massiccio di generatori diesel per alimentare parte dell’infrastruttura del sito COP.
Un dettaglio solo in apparenza secondario, ma che rivela la difficoltà di conciliare narrazione e realtà. È un problema che si verifica da anni, ma che a Belém è apparso particolarmente contraddittorio. A ciò si aggiungono altre criticità logistiche: ritardi, problemi di sicurezza, una gestione difficoltosa dei flussi. Piccoli scandali che alimentano l’impressione di un sistema negoziale mastodontico, rigido, poco efficiente.

UN VERTICE PIÙ SIMBOLICO CHE TRASFORMATIVO

alberi verdi sotto nuvole bianche durante il giornoIl messaggio morale lanciato dal segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, è stato inequivocabile: non rispettare l’obiettivo di 1,5 gradi è una “mancanza morale” e un atto di “negligenza mortale”. Sono parole forti, che fotografano l’urgenza del momento storico. Eppure, nel passaggio dalla retorica alla politica, qualcosa si spezza.
Molti riconoscono che il vertice ha avuto un valore simbolico importante: riaffermare il ruolo delle popolazioni indigene, porre l’Amazzonia al centro, preservare il dialogo multilaterale in un mondo polarizzato. Ma l’effetto reale sulle emissioni globali rischia di essere quasi nullo.
La COP30 è riuscita a evitare una crisi diplomatica, ma non ha saputo imporre una virata. L’atto politico che molti consideravano inevitabile – riconoscere una data, anche flessibile, per l’uscita dai fossili – è stato rinviato ancora una volta. E ogni rinvio è un ritardo accumulato.

INDICATORI E GOVERNANCE: LA PARTE CHE FUNZIONA (MA NON BASTA)
Tra gli aspetti più positivi c’è l’introduzione di 59 indicatori globali per monitorare i progressi dell’adattamento. Questo strumento è utile, necessario e può migliorare la trasparenza. In termini di governance della crisi climatica, si tratta di un passo avanti non irrilevante.
Il problema è che, senza impegni vincolanti e senza risorse certe, gli indicatori rischiano di diventare un esercizio di reporting più che un reale motore di trasformazione. “Misurare” è importante, ma è una condizione necessaria, non sufficiente. Sono le decisioni politiche a fare la differenza.

MULTILATERALISMO: SALVATO, MA IN DIFFICOLTÀUna bandiera che sventola su una spiaggia rocciosa vicino all'oceano
Alcuni osservatori sostengono che la COP30 è stata un successo perché ha evitato la rottura. In un contesto geopolitico instabile, con conflitti in corso e relazioni diplomatiche tese, mantenere un tavolo globale sul clima non è scontato.
Tuttavia, un multilateralismo che funziona solo come spazio di dialogo, senza capacità di produzione normativa, scivola lentamente verso l’irrilevanza. La COP non è nata per essere un forum simbolico: è nata per guidare un cambiamento di rotta planetario.
Mentre la crisi climatica accelera, il sistema negoziale rimane impantanato in un immobilismo strutturale che non riesce a superare gli interessi fossili e la paura dei governi di impegnarsi in trasformazioni profonde.

UNA CONFERENZA “DI TRANSIZIONE”, NEL SENSO PEGGIORE
La COP30 verrà ricordata come una conferenza interlocutoria: troppi obiettivi rimandati, troppe decisioni attenuate, troppo spazio alla diplomazia dilatoria.
Eppure, la storia giudicherà severamente questo tipo di esitazioni. Oggi non mancano le tecnologie, né le soluzioni economiche. Manca il coraggio politico. Le promesse di finanziamento sono importanti ma insufficienti; la mancanza di un impegno vincolante sui fossili è un fallimento grave e ripetuto; la distanza tra la scienza e le scelte dei leader resta abissale.
Belém avrebbe potuto rappresentare il momento della presa di coscienza collettiva. Invece, è diventata il luogo dove la comunità internazionale ha preferito restare su un terreno comodo: quello dei grandi annunci, delle frasi solenni, delle roadmap senza scadenze.
La crisi climatica richiede un salto di paradigma che la COP30 non ha saputo nemmeno abbozzare. Il simbolo dell’Amazzonia non basta se non si accompagna a una volontà politica capace di trasformare strutturalmente il modo in cui produciamo energia, viviamo, viaggiamo, consumiamo.
Il mondo non ha bisogno di un’altra COP che salvi l’immagine del multilateralismo. Ha bisogno di una COP che salvi il clima. E Belém, purtroppo, non lo è stata.

Hèléne Martin