Spingere l’accelleratore della transizione agroecologica dell’agricoltura in Italia”:
è l’obiettivo che si è dato il 3° Convegno nazionale di Agroecologia, organizzato

dall’Associazione Italiana di Agroecologia e dalla Coalizione Cambiamo Agricoltura

Il convegno si è concluso lanciando un appello ai decisori politici, alle associazioni agricole e agli altri attori sociali ed economici dei sistemi agroalimentari italiani affinché non rallentino il processo avviato dalla Commissione Europea per vincere le sfide di una vera transizione agroecologica e mantengano gli obiettivi delle Strategie UE “Farm to Fork” e “Biodiversità 2030”.

Mentre  al Vinitaly (la Fiera del vino italiano di Verona), la Presidentessa del Consiglio, sostenuta da alcune associazioni di settore, lanciava la proposta di un futuribile (ed improbabile) liceo, chiamato “del made in Italy” (traduzione: liceo del prodotto in Italia), a Roma sessanta esperti dei più diversi settori si sono avvicendati nel parlare di agroecologia, una materia proposta quale strumento chiave per consentire la transizione ecologica dell’agricoltura, a sua volta elemento cardine per combattere i cambiamenti climatici. Si tratta di un cambiamento di paradigma sia negli strumenti da applicare per realizzare la “proposta agroecologica”, sia nel collocare l’agricoltura all’interno delle attività umane, poiché uno dei nodi chiave di questa materia è la valorizzazione dei processi sociali nella progettazione e gestione di sistemi agro-alimentari sostenibili e la ricerca di modelli che mettano in opera le capacità collettive degli agricoltori e gli approcci di comunità. Non più il dualismo città/campagna, non più il ruolo ancillare dell’agricoltura, parente povera da sostenere con finanziamenti e cure forzate affinché, nei processi di “sviluppo” non sia in ritardo rispetto agli altri settori. L’agricoltura, invece, come perno per avviare i processi di risanamento agroambientale e per consentire il passaggio ad una società ecologicamente democratica. 

Non è la prima volta che tra le società umane si prospetta il cambio di  paradigma per organizzarsi; il più recente mutamento, descritto mirabilmente da Karl Polanyi nel libro “La grande trasformazione”, riguarda il passaggio alla società industriale, in cui la produzione di beni e l’economia, come scienza di gestione di tale produzione,  assumono un ruolo strategico e spingono a trasformare i cicli produttivi da circolari in sistemi lineari. Gli effetti sono ora visibili a tutti: accelerazione dello sfruttamento di risorse del pianeta, aumento delle disparità sociali, mutamento delle condizioni ambientali e diffusione di inquinamento tali da rendere possibili variazioni climatiche in grado di minare l’attuale sistema biologico sul pianeta.   

L’agricoltura fu il cuore di tale cambiamento, perse il ruolo centrale avuto per secoli nella costruzione sociale per diventare il serbatoio materiale e sociale da cui attingere le risorse per far crescere il sistema urbano-industriale, la cui produzione si basava sull’estrazione di risorse dal pianeta. Tale mutamento avvenne, come per il Rinascimento, nel corso di alcuni secoli in modo specifico nei diversi Paesi.  In Italia, il cambiamento partì assieme alla formazione del Regno nella seconda metà dell’Ottocento, attraverso le cosiddette “cattedre ambulanti”. Le cattedre ambulanti furono strumento di divulgazione e formazione professionale in agricoltura e si rivelarono fondamentali per la trasformazione del sistema primario e per l’organizzazione dell’amministrazione del settore. L’inchiesta agraria Jacini stava contemporaneamente descrivendo le condizioni dell’agricoltura, il settore di gran lunga più importante per i cittadini del nuovo Regno d’Italia, settore che nella logica liberista dei governi del periodo veniva compreso con tutte le altre attività produttive in un unico dicastero: il ministero dell’agricoltura, del commercio e dell’industria. Le cattedre furono chiamate a coprire un vuoto tecnico che l’inchiesta Jacini avrebbe messo in evidenza nel corso della sua realizzazione, e, in sostanza, a ricoprire un ruolo  istituzionale per trasformare il sistema economico del Paese.

A reggerle vi era un direttore (col titolo di professore) e uno o due assistenti, tutti laureati in scienze agrarie, coadiuvati in vario modo da aiutanti con diverse qualifiche. Le attività si svolgevano secondo una moderna concezione divulgativa: conferenze tenute in luoghi pubblici, sopralluoghi presso aziende agricole, consulti dati nei giorni di mercato a chi lo richiedesse ed in molti casi pubblicazione di opuscoli e giornali. Tra i tanti nomi di professionisti che si cimentarono in questa attività (con risultati e qualità dell’insegnamento di alterna efficacia) va ricordato quello di Nazareno Strampelli, agronomo e genetista, definito precursore della “rivoluzione verde” per l’attività di ricerca svolta, finalizzata alla trasformazione produttiva dei vegetali, a cui si deve la denominazione ancora oggi in uso di sementi elette, utilizzata per definire le varietà selezionate e certificate, ed una importante varietà di grano che porta il suo nome, da lui selezionata assieme alle tante individuate nel corso dell’attività. Le cattedre ambulanti svolsero un ruolo fondamentale di propaganda delle tecniche e delle sementi nuove durante la “battaglia del grano” del periodo fascista e non è un caso che Strampelli fosse stato nominato senatore dal Regime. Tanto importante fu il loro ruolo, da essere regolamentate nel 1928 e poi trasformate in “ispettorati provinciali dell’agricoltura” nel 1935, in pratica strutturati come uffici esecutivi dell’amministrazione centrale. 

Questa trasformazione istituzionale fu possibile perché accompagnata da una trasformazione socio culturale che portò l’agricoltura a divenire il braccio operativo del sistema industriale, assumendo i mezzi tecnici da esso provenienti (mezzi meccanici, concimi e poi antiparassitari) come materia prima indispensabile per l’aumento della produzione.  Questa concezione si manifestò in pieno nella battaglia del grano, quando la monocoltura cerealicola si impose alle altre coltivazioni (e causò il ridimensionamento del settore zootecnico), in conseguenza delle politiche governative, formulate con l’obiettivo di ridurre il deficit della bilancia import/export e stabilizzare i prezzi del settore.  Se da un lato la campagna di aumento delle produzioni, avvenuta con lo sviluppo della monocoltura e con un sempre più ridotto numero di varietà, risolse alcuni aspetti del bilancio dello Stato, dall’altro il processo di modernizzazione industriale innescato produsse effetti a catena, come le prime migrazioni di addetti tra settori produttivi (passaggio dall’agricoltura all’industria, fenomeno che avrebbe poi caratterizzato gli anni dopo il 1945).  La campagna stabilizzò il Regime ed ebbe anche, ovviamente, alcuni effetti secondari negativi che manifestarono la loro importanza nel tempo, come l’ulteriore disboscamento di aree a scapito della stabilità dei suoli e l’impoverimento della dieta delle popolazioni, che furono maggiormente esposte a malattie ed epidemie.   

Il trionfo di questa concezione tecnica, che trasformava il settore agricolo in agroindustriale, fu possibile attraverso la teorizzazione economica di stampo produttivista che ebbe in Arrigo Serpieri il massimo esponente. La sua teorizzazione del sistema di bonifica, concepito come “bonifica integrale”, fu in grado di offrire un ruolo al sistema agricolo ancorandolo alla concezione produttivistica dell’intero sistema economico, concezione che avrebbe segnato il XX secolo. Se un tempo per bonifica si intendeva la trasformazione di terreni paludosi, la disciplina della bonifica integrale ebbe per oggetto non solo il risanamento dei terreni paludosi, ma anche le operazioni eseguite per il miglioramento dei terreni coltivabili o per una radicale trasformazione della destinazione produttiva. Tali trasformazioni presupponevano un’intesa sociale che consentisse il passaggio di ruoli, lo spostamento di popolazione, la creazione di “percorsi di modernizzazione”. Il fascismo raggiunse tutto ciò agendo preventivamente con i mezzi che purtroppo tutti hanno conosciuto: la distruzione (con azioni criminali ed omicide) delle organizzazioni autonome contadine, operaie e della struttura sociale preesistente, che fu la condizione preliminare per avviare poi il processo di modernizzazione italiano con alcuni interventi modello: ad esempio, il trasferimento dei contadini veneti nelle paludi pontine per la loro bonifica. In particolare, in condizioni mutate e con obiettivi radicalmente diversi, alle condizioni attuali dei sistemi agricoli e della società nel suo insieme, l’agroecologia si rapporta a quel percorso che nella seconda metà dell’Ottocento caratterizzò la trasformazione industriale dell’agricoltura italiana attraverso la creazione delle cattedre ambulanti in agricoltura e spinge affinché le nuove idee di gestione dell’agricoltura si diffondano nella società e permettano alle comunità locali di trovare vie di uscita alla crisi socioeconomica preservando le risorse locali e riducendo l’inquinamento e la dissipazione di energia. 

Esporre gli aspetti che hanno costruito il volto dell’agricoltura italiana è essenziale per chiarire il percorso, arduo, che l’agroecologia ha dinanzi e le difficoltà per rimuovere i presupposti ideologici che ora ancorano l’agricoltura al sistema industriale simil-fordista. Tagliare il cordone che lega l’agricoltura in posizione subalterna all’industria ed alla finanza è un’impresa complessa che richiede tempo. Come recita il comunicato del congresso di Agroecologia, “Vi è la necessita di costituire un patto etico-sociale tra tutti gli attori del settore agro-alimentare per accompagnare gli agricoltori nei percorsi di transizione ecologica a livello di assistenza tecnica e a livello di sostenibilità economica”.Per tale motivo occorre avere memoria dei percorsi passati, comprendendo come si sia creata la subalternità che costringe l’agricoltura ad avere un saldo energetico negativo, che induce gli altri settori produttivi a immettere sempre nuova energia ed in maggiori quantità, estraendola dalle riserve del pianeta. 

La creazione della moderna agricoltura, detta ora “agricoltura convenzionale”, ha causato la perdita  del ruolo di “accumulatore energetico” che aveva mantenuto grazie alle piante ed alla loro capacità di catturare l’energia solare. L’agroecologia si promette di ripristinarlo, fungendo in tal modo da perno per lo sviluppo di un’economia circolare fondata su fonti energetiche rinnovabili e su attività produttive a “misura di pianeta”, che riducano al minimo la dissipazione di energia. Se guardiamo ai gruppi di discussione avviati nel congresso, ritroviamo tutti i temi che legano l’agricoltura non solo alle attività umane, ma all’insieme dei cicli planetari.    

La conservazione della biodiversità in tutte le scale, la riduzione di tutti gli input chimici di sintesi, sono le basi su cui avviare una adeguata formazione, informazione ed assistenza tecnica alle aziende agricole.

 I modelli agroecologici forniscono una risposta per mitigare e adattarsi ai cambiamenti climatici attraverso pratiche rispettose dell’ecologia del suolo, nonché un cambio di modello da una zootecnia intensiva a specializzata ad un sistema agro-zootecnico in grado di mantenere la massima autosufficienza alimentare e una corretta restituzione al suolo dei nutrienti.

Infine, il problema al cuore del cambiamento: come rispondere agli aspetti critici e alle vulnerabilità del sistema agro-alimentare globale attraverso la ricostruzione dei sistemi agroalimentari su scala locale, sistemi che tengono insieme il necessario cambiamento delle pratiche di produzione, distribuzione e consumo, con la costruzione e condivisione di nuovi sistemi di conoscenza. Se ci sono tutti i presupposti, quel che ancora manca per avviarsi a rendere centrale il progetto di mutamento è una teoria generale, in grado di trasformare l’agroecologia da un mosaico di competenze in un sistema integrato, in grado di applicare localmente e costruire un sistema di rete in cui inserire tutti gli atri settori “produttivi”. Per farlo abbiamo bisogno anche di un nuovo linguaggio, perché non possiamo parlare di “materie prime” quando dobbiamo riutilizzare ciò che già abbiamo in mano, non possiamo parlare di rifiuti quando dobbiamo avviarli al riciclo, non possiamo parlare di filiere, quando dovremmo sviluppare circuiti auto rinnovanti.

Abbiamo bisogno di sistematizzare e diffondere il linguaggio dell’agroecologia, di creare e diffondere procedure di intervento su nuovi standard produttivi, di creare metodologie di lavorazione che guardino non solo al prodotto, ma al produttore ed al consumatore, di permettere a tutti di sapere cosa mangiano, chi lo produce e come. Sino ad ora coloro che si sono preoccupati di questi problemi sono stati divisi in tante organizzazioni, tante realtà talvolta senza una lingua comune. Si tratta di ricreare in sede locale la tela di ragno che può sostenerci e collegarci nel mondo.

Ha avuto partita facile chi, sino ad ora, ha proposto in modo gattopardesco che “tutto cambi affinché nulla cambi”, attraverso nuove “invenzioni” che avrebbero risolto i nostri problemi, e ce ne siamo accorti sempre molto tardi. Lo sviluppo è stato sempre così, proponendo nuovi traguardi più lontani non appena si fosse giunti alla realizzazione di un obiettivo, scoprendo non essere il paradiso promesso, come accaduto per la cosiddetta rivoluzione verde in India o per i 100 q.li/ha di produzione di grano tenero in Francia.

L’agroecologia ci invita ad accettare la realtà, a convivere con il cambiamento climatico cercando di ridurne gli effetti negativi ma, soprattutto, scoprendo che è possibile migliorare la nostra vita ripartendo dall’energia che abbiamo attorno, che in genere disperdiamo senza nemmeno rendercene conto, a partire dalla produzione agricola e dallo sviluppo di una economia circolare integrale che sostituisca l’obsoleto concetto di “bonifica integrale”.

Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti