Qualcuno in questi giorni ha detto che  l’Umanità deve scegliere tra la guerra e la pace. Quando a dirlo è qualcuno che ritieni essere da una parte diversa dalla tua, addirittura avversa, si dovrebbe riflettere e ripensare al nostro agire. Quali sono gli elementi che possono spingere parti con interessi divergenti dai nostri a porsi una domanda così fondamentale? Dalla lettura dei giornali sembrerebbe che sia solo un problema di dominio e potere, mentre crediamo sia un fatto più profondo, che riguardi la necessità di ridiscutere il nostro agire sul pianeta. Avere un rapporto diverso innanzitutto con la terra che coltiviamo. Per questo pubblichiamo un interessante articolo di Sergio Ferrari, giornalista argentino che vive in Svizzera che, attraverso di esso, ha messo in rilievo come i dati relativi alla agricoltura condotta con criteri agroecologici, dopo cinquant’anni di rilevazioni e confronti fra coltivazioni biologiche e convenzionali, siano inoppugnabilmente favorevoli da un punto di  vista tecnico e anche economico. L’aspetto rilevante per la caduta del mito produttivo dell’agricoltura convenzionale (su cui regge tutta la propaganda dell’innovazione) è che il vaglio dei dati è avvenuto attraverso il lavoro di due istituti scientifici: l’Istituto di Ricerca per l’Agricoltura Biologica (FIBL) e il Centro Federale di Competenza Agricola (Agroscope). Un lavoro sul campo di 47 anni su 97 parcelle  a Therwil (Svizzera).  Non vengono mascherati  limiti dei sistemi agricoli, anche biologici, ma la loro valutazione avviene attraverso criteri che hanno un orizzonte più largo e questi dati sono confermati fuori dalle condizioni climatiche svizzere, anche da esperienze come quella condotta in Tanzania che l’articolo descrive.

(Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti)

 

Cade un mito produttivo. La scienza dimostra che l’agricoltura biologica è efficace. Le critiche lanciate dalla grande produzione agricola convenzionale svaniscono. L’agroecologia come mezzo per garantire la sovranità alimentare è una delle proposte essenziali di La Vía Campesina.
Per decenni, il dibattito sul presente-futuro dell’agricoltura ha contrapposto due visioni quasi antitetiche. Da un lato, il modello convenzionale, centrato sulla massimizzazione delle rese, che unisce tecnologia, agrochimica e immensi monocoltivazioni. Dall’altro, le proposte bio-organiche o agroecologiche, considerate interessanti, ma criticate perché “meno produttive”. Dietro l’una e l’altra visione si collocano la grande produzione agro-esportatrice e le alternative ecologiche difese, tra gli altri, dai movimenti sociali del mondo rurale.
Un rigoroso lavoro di campo durato 47 anni su 97 parcelle biologiche a Therwil, in Svizzera, promosso congiuntamente dall’Istituto di Ricerca per l’Agricoltura Biologica (FiBL, sigla in tedesco) e dal Centro Federale di Competenza Agricola (Agroscope), ha concluso che esse hanno ottenuto, in media, un livello di resa pari all’85% di quello delle parcelle convenzionali e che tale differenza dipende in gran parte dal tipo di coltura analizzata. Così, per esempio, la soia biologica ha raggiunto livelli simili a quelli della soia convenzionale e si sono registrate lievi differenze in colture foraggere, come l’erba medica e il mais da insilato, mentre la differenza è stata maggiore nel caso del frumento e della patata biologici.
Secondo questo studio, conosciuto come DOC (D per bioDinamico, O per bioOrganico e C per Convenzionale), il grande divario che separa la produzione biologica da quella convenzionale riguarda l’impatto ambientale. Infatti, la biologica utilizza il 92% in meno di pesticidi e il 76% in meno di azoto minerale rispetto alla convenzionale. Nelle coltivazioni biologiche la riduzione dell’uso di fertilizzanti azotati è il principale fattore di un impatto climatico molto minore. L’eccesso di azoto dei fertilizzanti si trasforma in protossido di azoto, un gas con conseguenze negative impressionanti per il clima.
Come afferma lo studio, è vero che la riduzione nell’uso di fertilizzanti e prodotti fitosanitari genera una maggiore variabilità delle rese nei sistemi biologici rispetto a quelli convenzionali, determinando una produttività meno stabile. Tuttavia, il rischio di contaminazione dell’acqua e degli alimenti (per gli esseri umani e gli animali) con sostanze nocive è significativamente minore.

PRESTIGIOSA CERTIFICAZIONE DELL’AGRICOLTURA BIOLOGICA
Le coltivazioni convenzionali, conosciute anche come agricoltura industriale o tradizionale, incorporano l’uso intensivo di input esterni, come fertilizzanti sintetici, pesticidi ed erbicidi, così come sementi migliorate per massimizzare la produzione. Queste coltivazioni sono il pilastro essenziale del modello agro-esportatore delle multinazionali, in particolare quelle alimentari e agrochimiche. Modello che punta all’efficienza e all’alta produttività attraverso moderne tecnologie applicate a grandi superfici dedicate alle monocoltivazioni, cioè la piantagione di una sola specie su un’enorme estensione. Ad esempio, tra le altre, soia, eucalipto, palma da olio, pino, mais o canna da zucchero.
Oltre al gran numero di ricercatori dedicati al progetto DOC, la sua importanza risiede nei quasi cinquant’anni di studi comparativi e nella sistematica raccolta di dati. Elementi essenziali in questo tipo di ricerche, poiché gli effetti derivanti dalla conversione di un sistema agricolo convenzionale in uno biodinamico o biologico diventano evidenti solo dopo molto tempo. Questo prolungato periodo “di attesa” risponde, tra gli altri fattori, alla lentezza dei processi di trasformazione del suolo, come l’accumulo di sostanza organica stabile. Fino ad oggi, circa 140 pubblicazioni scientifiche specializzate, oltre a numerose tesi di master e dottorato, si sono nutrite delle scoperte sistematiche del DOC.
Questo studio apporta altre conclusioni non meno rilevanti. Nei suoli coltivati biologicamente, per esempio, sono stati identificati livelli di humus circa del 16% più elevati e fino all’83% in più di attività degli organismi del terreno rispetto alle parcelle convenzionali. Senza dubbio, un effetto particolarmente positivo per il suolo, ora in migliori condizioni per immagazzinare più acqua e ridurre l’impatto dell’erosione.

TESI CONFERMATE NEL SUD GLOBALE
Le ricerche del DOC hanno ispirato iniziative simili in Svizzera, come i progetti FAST e Burgrain (promossi da Agroscope), così come in altri Paesi. Ad esempio, diversi esperimenti comparativi di sistemi di coltivazione a lungo termine (SysCom, per “Comparazione di Sistemi”) realizzati dal FiBL in Bolivia (coltivazione del cacao), India (cotone) e Kenya (un’ampia gamma di alimenti di base, soprattutto mais e patate).
Altre esperienze pratiche in Africa confermano le conclusioni ottimistiche dello studio DOC sulla produzione biologica. L’organizzazione non governativa svizzera SWISSAID, con la sua controparte locale in Tanzania, ha promosso un progetto di ricerca che ha confermato in modo deciso i benefici dei meccanismi economici identificati dallo studio di Therwil.
In un articolo recente, SWISSAID ha concluso che “dopo cinque anni di transizione, gli agricoltori che partecipano al progetto CROPS4HD hanno ridotto massicciamente le loro spese per input esterni”. Questo progetto punta a migliorare la qualità degli alimenti e la resilienza agricola in generale attraverso la valorizzazione di colture “orfane”, o sottoutilizzate, che rispondono molto bene in ambienti marginali e possiedono un alto valore nutrizionale.

L’analisi economica rivela che, paradossalmente, le aziende convenzionali hanno costi di produzione per ettaro più elevati a causa della loro dipendenza da fertilizzanti e pesticidi chimici, confermando la trappola economica dei profitti spropositati dell’agroindustria. SWISSAID spiega che la produzione ecologica redistribuisce i benefici tra gli agricoltori, non tra gli azionisti delle multinazionali e delle imprese agricole quotate in borsa. Nel caso della Tanzania, le aziende che hanno maggiormente progredito nel processo di transizione agroecologica presentano costi più bassi e maggiori redditi netti, il che conferma che la minore resa relativa del 15% è ampiamente compensata dai benefici che restano nelle mani dei produttori. Questa riappropriazione economica è accompagnata da una diversificazione strategica: il progetto sviluppa specie “orfane”, cioè con scarso o nessun miglioramento genetico e senza prospettive di esportazione, ma molto importanti per la sovranità alimentare locale, come amaranto, miglio, fonio e pisello bambara. In questo modo si sono create nuove catene del valore controllate localmente.

Questa relativa indipendenza produttiva non solo rappresenta un vantaggio per l’ambiente; costituisce inoltre una leva fondamentale di una forma diversa di potere economico al servizio degli agricoltori diretti. Nel sistema convenzionale, spesso gli agricoltori sono l’anello debole di una catena del valore più grande di loro. Di conseguenza, restano soggetti alla volatilità dei prezzi di fertilizzanti e pesticidi, un mercato controllato da poche multinazionali, mentre subiscono la pressione dei supermercati sui prezzi di vendita dei propri prodotti. Gran parte del valore che questi agricoltori generano viene catturato dai fornitori, dai trasformatori e dai distributori.

In un mondo che si confronta con il cambiamento climatico, l’erosione della biodiversità e la volatilità dei mercati, i promotori di questo progetto in Tanzania considerano che la resilienza e l’autonomia degli agricoltori non siano più opzioni, ma imperativi. Soprattutto nei Paesi più vulnerabili del Sud, dove ogni perturbazione delle catene di approvvigionamento aggrava l’insicurezza alimentare della popolazione.
Le svalutazioni si sciolgono. Il mito che assimila il biologico a costi più elevati comincia a svanire. E il biologico si proietta non solo come qualcosa di salutare e difensore dell’ambiente, ma anche come accessibile all’economia popolare.

Sergio Ferrari
(Ex prigioniero politico argentino, vive in Svizzera dal 1978, dove lavora come giornalista; accreditato presso le Nazioni Unite a Ginevra, è membro della redazione del quotidiano indipendente Le Courrier, pubblicato a Ginevra. Collabora inoltre con diversi media svizzeri e latinoamericani).