Il Green Deal europeo, presentato dalla Commissione von der Leyen nel dicembre 2019, è stato salutato come il più ambizioso progetto di transizione ecologica mai concepito dall’Unione Europea. Definito da molti come la “nuova strategia di crescita” dell’UE, il Green Deal non era soltanto un pacchetto ambientale, ma un programma politico complessivo, volto a ridefinire la traiettoria economica, sociale e produttiva del continente. L’obiettivo dichiarato – raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 – implicava una trasformazione radicale dei modelli di sviluppo, delle politiche energetiche, delle filiere produttive e delle regole del mercato unico. La sua approvazione avvenne in un contesto geopolitico in cui l’Unione Europea ambiva a porsi come leader globale nella lotta al cambiamento climatico, anticipando Stati Uniti e Cina, e assumendo un ruolo di avanguardia normativa capace di coniugare competitività e sostenibilità. Tuttavia, a distanza di sei anni dal suo lancio, il bilancio appare assai meno entusiasmante. L’avanzata del Green Deal si è scontrata con la crescente resistenza di settori industriali, lobby economiche e governi nazionali che, pur avendo sottoscritto gli obiettivi, hanno progressivamente spostato l’asse del dibattito politico dalla “necessità della transizione” al “costo della transizione”. A partire dal 2023-2024, complici crisi energetiche, instabilità geopolitica e nuove priorità elettorali, l’impianto originario del Green Deal è stato oggetto di un processo di revisione, eufemisticamente definito di “semplificazione” e “realismo”, ma che in realtà si configura come una vera e propria fase di smantellamento normativo. La Commissione ha dapprima rallentato l’attuazione di alcune direttive chiave, per poi passare a proposte di ritiro, rinvio e diluizione di strumenti che costituivano pilastri essenziali della credibilità europea in materia di sostenibilità. La scelta di ritirare la direttiva sulle affermazioni ambientali (Green Claims Directive), la decisione di rinviare l’entrata in vigore della regolamentazione sulla deforestazione importata, l’adozione dell’“Omnibus Simplification Package” volto a ridimensionare gli obblighi di trasparenza delle imprese, fino all’idea di ridefinire al ribasso gli obiettivi di riduzione delle emissioni al 2035 e al 2040, sono tutti segnali di una regressione politica che non può essere compresa se non alla luce di un cambiamento di paradigma: la sostenibilità non è più considerata un vincolo inderogabile, ma una variabile negoziabile in nome della competitività industriale. In questo contesto, la posizione dell’Italia appare esemplare. Lungi dall’assumere un ruolo di traino, il governo italiano ha costantemente adottato una linea di subordinazione, sostenendo la semplificazione amministrativa, accettando senza resistenze i rinvii normativi e ribadendo la necessità di “realismo” nei target climatici. Questa postura, condivisa da altri grandi Stati membri come Francia e Germania, conferma come l’Unione Europea non sia oggi un soggetto coeso e proattivo nella transizione ecologica, ma piuttosto un’arena di compromessi intergovernativi in cui prevalgono gli interessi industriali nazionali. Il presente contributo intende dunque analizzare criticamente le principali tappe di questo processo di revisione regressiva del Green Deal, collocandole in una prospettiva giuridico-politica e istituzionale. Verranno esaminate le decisioni della Commissione e del Consiglio, le reazioni del Parlamento europeo, nonché le posizioni espresse dagli Stati membri, con particolare attenzione al ruolo dell’Italia. A ciò si aggiungerà una timeline cronologica (2019–2025) utile a ricostruire lo sviluppo e, parallelamente, il progressivo svuotamento di quello che, almeno nelle intenzioni originarie, avrebbe dovuto rappresentare il progetto fondativo di una nuova Europa verde.
Il Green Deal europeo, lanciato dalla Commissione von der Leyen nel 2019, è stato presentato come la strategia cardine dell’Unione Europea per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Tuttavia, a partire dal 2024-2025, si assiste a una progressiva erosione del suo impianto normativo e politico, attraverso sospensioni, rinvii e proposte di semplificazione che ne riducono l’ambizione. Di seguito offrirò una ricognizione critica delle principali ipotesi di revisione, con puntuale riferimento alle fonti ufficiali e alle posizioni degli Stati membri, in particolare dell’Italia.
IL CONTESTO POLITICO EUROPEO DEL 2019: TRA PRESSIONI SOCIALI E COMPROMESSI ISTITUZIONALI
Il Green Deal europeo non nacque in un vuoto politico-istituzionale, ma fu il prodotto di un preciso contesto storico. Le elezioni europee del maggio 2019 segnarono un momento di discontinuità: da un lato l’affermazione dei partiti ambientalisti, che ottennero risultati significativi soprattutto in Germania e nei Paesi del Nord Europa (si veda: Parlamento europeo, risultati ufficiali delle elezioni europee 2019); dall’altro, il progressivo indebolimento dei due grandi blocchi tradizionali – Partito Popolare Europeo e Socialisti & Democratici – costretti a negoziare maggioranze più ampie. Proprio da questa frammentazione emerse la necessità di un programma in grado di garantire consenso trasversale, ed è in tale quadro che prese forma l’idea di un “Green Deal” come progetto politico identitario della nuova Commissione.
Parallelamente, il 2018-2019 fu caratterizzato dall’ascesa dei movimenti sociali per il clima, in primis Fridays for Future, che mobilitarono milioni di giovani in tutta Europa e che posero la questione ambientale al centro dell’agenda politica. Le piazze chiedevano l’abbandono delle politiche incrementaliste e l’assunzione di impegni radicali per contrastare la crisi climatica. La pressione sociale contribuì a spostare il baricentro del dibattito pubblico, costringendo le istituzioni europee a presentare il Green Deal come risposta alla domanda crescente di giustizia climatica.
La nascita della Commissione von der Leyen, a sua volta, fu segnata da forti tensioni: la stessa Presidente ottenne la fiducia del Parlamento europeo il 16 luglio 2019 con una maggioranza di soli nove voti (Parlamento europeo, votazione plenaria 16.7.2019). Nella sua dichiarazione politica inaugurale, von der Leyen promise di consegnare entro i primi 100 giorni un “European Green Deal”, destinato a diventare il marchio distintivo del suo mandato (Commissione europea, Political Guidelines for the next European Commission 2019–2024). Si trattava, dunque, non solo di una strategia ambientale, ma anche di uno strumento politico-istituzionale per consolidare la legittimità di una Commissione nata fragile e sotto scrutinio.
In sintesi, il Green Deal del 2019 si collocava all’incrocio tra tre forze: la pressione popolare dei movimenti climatici, la necessità dei partiti europei di trovare un compromesso post-elettorale e la volontà della Commissione von der Leyen di legittimarsi come “Commissione geopolitica” capace di guidare l’Europa in un’epoca di trasformazioni globali. Questo contesto iniziale ne spiega l’ambizione originaria, ma al tempo stesso ne prefigurava le fragilità, legate a un consenso costruito su equilibri politici e compromessi istituzionali più che su un reale accordo programmatico tra gli Stati membri.
DAL MOMENTO FONDATIVO ALLA REGRESSIONE NORMATIVA: PARABOLA DEL GREEN DEAL
L’analisi delle origini del Green Deal europeo consente di comprendere meglio la sua parabola politica. Nato nel 2019 come risposta a un contesto eccezionalmente favorevole – l’avanzata elettorale dei partiti ambientalisti, la mobilitazione di massa dei movimenti climatici e la necessità della Commissione von der Leyen di legittimarsi attraverso un progetto simbolico e identitario – il Green Deal rappresentava una promessa di rinnovamento strutturale dell’Unione Europea. La narrativa era quella di una “nuova strategia di crescita” capace di unire sostenibilità e competitività, trasformando la transizione ecologica in un’occasione di rilancio politico ed economico.
Tuttavia, la fragilità originaria di questo consenso è divenuta evidente nel corso del tempo. Il compromesso su cui il Green Deal era stato edificato si reggeva più sulla pressione sociale e sul capitale politico contingente che su un reale allineamento degli interessi nazionali. Con il mutare delle condizioni geopolitiche – la pandemia, la crisi energetica innescata dalla guerra in Ucraina, la competizione economica con Stati Uniti e Cina – gli Stati membri hanno progressivamente privilegiato la difesa delle proprie industrie strategiche rispetto all’attuazione di obiettivi climatici vincolanti.
In questo quadro, la Commissione ha progressivamente abbandonato la postura ambiziosa delle origini per adottare un approccio adattivo, fatto di rinvii, ritiri e semplificazioni. La fase attuale di revisione del Green Deal non può quindi essere letta soltanto come un’inevitabile “correzione tecnica”, bensì come la conseguenza della mancanza di una base politica solida sin dall’inizio. L’Italia, come altri Stati membri, ha incarnato questa parabola, passando dall’adesione formale del 2019 a un progressivo ridimensionamento del proprio impegno, in nome di esigenze economiche e industriali immediate.
La ritirata sulla Green Claims Directive, le semplificazioni dell’Omnibus Package, la mancata riforma della governance multilivello, la ridefinizione al ribasso dei target climatici, le pressioni di Italia, Francia e Germania contro la due diligence e il rinvio della normativa sulla deforestazione compongono un mosaico di regressione normativa.
IL RITIRO DELLA GREEN CLAIMS DIRECTIVE
Uno dei casi più emblematici, è rappresentato dalla proposta di direttiva sulle affermazioni ambientali (Green Claims Directive), annunciata dalla Commissione nel 2023 per contrastare il fenomeno del greenwashing. Il 20 giugno 2025 la Commissione ha comunicato la propria intenzione di ritirare il testo, sostenendo che esso avrebbe imposto un onere amministrativo sproporzionato a circa 30 milioni di microimprese europee (Commissione europea, comunicato del 20.6.2025). La scelta è stata fortemente voluta dal gruppo del Partito Popolare Europeo e sostenuta da alcune organizzazioni imprenditoriali (cfr. Euronews, 20.6.2025), mentre ha suscitato la reazione negativa del Parlamento europeo, che ha denunciato un vulnus democratico: un atto in codecisione non può essere ritirato unilateralmente dalla Commissione (si veda: Parlamento europeo, dichiarazione 22.6.2025).
L’Italia non ha assunto una posizione ufficiale di dissenso ma, nelle dichiarazioni del Ministero delle Imprese, si è mostrata favorevole alla riduzione degli oneri burocratici, accodandosi di fatto all’orientamento della Commissione.
L’“OMNIBUS SIMPLIFICATION PACKAGE”
Il 26 febbraio 2025 la Commissione ha presentato il cosiddetto “Omnibus Simplification Package”, un pacchetto di modifiche legislative volto a ridurre gli obblighi di rendicontazione delle imprese in materia di sostenibilità (Commissione europea, COM(2025) 112). Il Consiglio dell’Unione europea ha adottato il 23 giugno 2025 un mandato negoziale favorevole alla semplificazione (Consiglio UE, 23.6.2025), mentre il Parlamento europeo, il 1° aprile 2025, aveva già deciso di trattare il dossier in procedura accelerata.
Le misure incidono in particolare sulla Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) e sulla Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD), introducendo soglie più alte e un “stop-the-clock” per i termini di applicazione. L’Italia, in sede di Consiglio, ha sostenuto apertamente il pacchetto, allineandosi con Francia e Germania nel privilegiare le esigenze delle imprese nazionali a scapito della piena attuazione degli obiettivi ambientali.
GOVERNANCE MULTILIVELLO E RUOLO DELLE REGIONI
Già nel giugno 2023 il Comitato delle Regioni aveva organizzato una consultazione (“Towards a multilevel Green Deal governance”), evidenziando la necessità di rafforzare la partecipazione degli enti locali nell’attuazione del Green Deal (CoR, Opinione CDR 0903/2023, 8.6.2023). Tuttavia, tali istanze non hanno avuto seguito concreto nelle istituzioni centrali, segno che la governance multilivello rimane una promessa disattesa. L’Italia, nonostante il forte ruolo dei comuni e delle regioni nell’attuazione delle politiche ambientali, non ha spinto per un maggiore decentramento, rimanendo in posizione defilata.
LA RIDEFINIZIONE DEI TARGET CLIMATICI
Il 30 settembre scorso la Presidente von der Leyen ha annunciato che l’UE stabilirà nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni per il 2035 e il 2040, da presentare alla COP30 (Reuters, 30.9.2025). L’operazione, lungi dal costituire un rafforzamento, appare come un tentativo di ricalibrare gli obiettivi in chiave “più flessibile” e dunque potenzialmente meno vincolante. L’Italia ha sostenuto la necessità di “realismo” nei target climatici (dichiarazione del Ministro dell’Ambiente, 2.10.2025), lasciando intendere che i nuovi obiettivi dovranno tener conto della competitività industriale nazionale.
ITALIA FRANCIA E GERMANIA CONTRO LA DUE DILIGENCE
Nel corso del 2025 Francia e Germania hanno apertamente contestato l’impianto della CSDDD, chiedendone l’abrogazione o una sostanziale revisione (Financial Times, 12.5.2025). Tali posizioni hanno condizionato l’intero negoziato. L’Italia, pur non schierandosi con la stessa veemenza, ha espresso scetticismo sull’opportunità di imporre obblighi di due diligence alle piccole e medie imprese, dimostrando un progressivo allineamento alla linea franco-tedesca.
IL RINVIO DELLA NORMATIVA SULLA DEFORESTAZIONE
Il 2 ottobre scorso la Commissione ha proposto di rinviare di un anno l’entrata in vigore della EU Deforestation Regulation (Regolamento (UE) 2023/1115), motivando la scelta con problemi tecnici e di preparazione degli operatori (Commissione europea, comunicato 2.10.2025). Si tratta dell’ennesimo rinvio che indebolisce la capacità dell’UE di incidere su filiere globali responsabili di deforestazione. Anche in questo caso l’Italia non ha espresso contrarietà, rimanendo su una posizione attendista.
UNA LEADERSHIP CHE SCOMPARE
Il Green Deal, nato nel 2019 come simbolo di un’Europa capace di rispondere alle pressioni sociali e di assumere una leadership globale sul clima, rischia oggi di essere ricordato come un’occasione mancata: un progetto ambizioso avviato in un momento di entusiasmo politico, ma svuotato nel momento in cui le condizioni storiche hanno reso più difficile trasformare le ambizioni in azioni concrete e vincolanti. La sua parabola rivela, in ultima analisi, il limite strutturale dell’Unione Europea: l’incapacità di mantenere nel lungo periodo coerenza e leadership nelle politiche ambientali quando queste si scontrano con gli interessi industriali e con la logica del compromesso intergovernativo.
Il quadro che emerge è chiaro: il Green Deal europeo non è in fase di “correzione”, bensì di progressivo svuotamento. L’Italia, lungi dall’assumere un ruolo propulsivo, si è accodata alla linea del compromesso, privilegiando la competitività industriale nazionale rispetto alla coerenza ambientale. In tal modo, l’Unione Europea rischia di perdere la leadership climatica che aveva rivendicato sulla scena internazionale, offrendo l’immagine di un continente incapace di tradurre le proprie ambizioni in azioni vincolanti ed efficaci.
VERSO UN RINNOVATO IMPEGNO EUROPEO PER LA TRANSIZIONE ECOLOGICA
Il processo di revisione del Green Deal europeo, nella sua forma attuale, rappresenta una deviazione profonda dal mandato originario del 2019. Le scelte di “semplificazione” e “realismo” adottate negli ultimi anni rischiano di compromettere non solo l’efficacia delle politiche ambientali, ma anche la credibilità dell’Unione come attore globale nella governance climatica. La regressione normativa che oggi si osserva — espressa attraverso ritiri, rinvii e attenuazioni delle direttive cardine — non è solo un problema tecnico o procedurale: essa è il riflesso di una crisi politica di visione.
Eppure, l’Unione Europea dispone ancora degli strumenti e del capitale politico necessari per invertire la rotta. La storia stessa del Green Deal dimostra che un cambio di paradigma è possibile quando la pressione della società civile, la coerenza scientifica e la volontà istituzionale convergono verso un obiettivo comune. È auspicabile che, di fronte alle sfide sempre più evidenti del cambiamento climatico — dall’aumento delle temperature globali agli eventi estremi che colpiscono ogni anno il territorio europeo — le istituzioni europee ritrovino il coraggio politico che animava la stagione del 2019.
Occorre tornare a concepire la sostenibilità non come una variabile negoziabile, ma come il fondamento stesso della prosperità e della sicurezza continentale. In tal senso, un rilancio del Green Deal dovrebbe poggiare su tre pilastri: una rinnovata governance multilivello che valorizzi il ruolo degli enti locali; una piena integrazione della giustizia sociale nella transizione ecologica; e un rafforzamento dei meccanismi vincolanti a tutela della biodiversità, del clima e delle generazioni future.
Solo un ritorno a questa visione originaria — quella di un’Europa che assume la tutela ambientale e climatica come principio costitutivo, e non come vincolo economico — potrà restituire legittimità al progetto europeo. Il Green Deal non deve essere ricordato come un esperimento incompiuto, ma come la base di una nuova stagione politica in cui l’Unione torni a essere laboratorio di civiltà ambientale e di giustizia intergenerazionale.
Giuseppe d’Ippolito


