Ogni anno, il mondo misura le proprie emissioni di gas serra con estrema precisione. Tabelle, grafici, inventari nazionali: la macchina statistica del clima sembra impeccabile. Eppure, dietro questi numeri si nasconde una verità scomoda: il modo in cui contiamo le emissioni può cambiare completamente la percezione della responsabilità climatica di un Paese. Se guardiamo ai dati ufficiali, l’Italia sembra sulla buona strada. Secondo l’ISPRA, le nostre emissioni territoriali nel 2022 sono state circa 418 milioni di tonnellate di CO₂ equivalente, un calo del 22% rispetto al 1990. Nel dibattito pubblico questo viene spesso presentato come un traguardo: “siamo più virtuosi di altri grandi Paesi industrializzati”. Ma la fotografia cambia se allarghiamo l’inquadratura. L’Italia importa ogni anno enormi quantità di beni e materie prime ad alta intensità di carbonio: acciaio, cemento, ceramica e prodotti chimici da Cina, India e Turchia; abbigliamento e tessile dal Sud-est asiatico, con un’impronta climatica molto superiore a quella che comparirebbe se fossero prodotti sul nostro territorio; carburanti fossili e derivati energetici che, pur non entrando nelle statistiche nazionali di produzione, pesano sull’impronta reale dei nostri consumi. Studi condotti a livello europeo mostrano che, se misurassimo le emissioni in base al consumo e non alla produzione, l’impronta media di un cittadino dell’UE crescerebbe del 30-40%. Per l’Italia, ciò significa che la nostra vera “impronta climatica” potrebbe superare abbondantemente i 500 milioni di tonnellate di CO₂ equivalente, vanificando gran parte dei progressi di cui ci vantiamo. Ecco perché il tema non è neutro. Decidere se contare le emissioni per produzione (quelle generate all’interno dei confini nazionali) o per consumo (quelle incorporate nei beni e servizi che usiamo ogni giorno) non è un dettaglio tecnico: è una scelta politica e morale. È il confine invisibile che separa chi appare virtuoso da chi appare colpevole, chi deve pagare il prezzo della transizione e chi può tirare un sospiro di sollievo.

 

Quando si parla di cambiamento climatico, le cifre contano. Ma come vengono contate le emissioni di gas serra? La risposta non è tecnica, è politica. E può ribaltare completamente la percezione di chi inquina di più e di chi deve fare sacrifici nella transizione ecologica.

Una grande barca in uno specchio d'acqua vicino a una fabbricaPRODUZIONE O CONSUMO? DUE MODI DI VEDERE LO STESSO MONDO
Il metodo oggi usato nei negoziati internazionali (ONU, Accordo di Parigi) è quello di produzione: si calcolano le emissioni generate all’interno dei confini di un Paese. Sembra logico, ma c’è un problema.
Prendiamo la Cina: la maggior parte delle sue fabbriche produce beni destinati all’export, in particolare verso Europa e Stati Uniti. Se guardiamo alle emissioni “territoriali”, la Cina appare come il grande mostro inquinatore. Ma chi consuma quell’acciaio, quei vestiti, quegli smartphone? Non certo solo i cinesi.
Ed ecco l’altra prospettiva: il metodo di consumo, che attribuisce le emissioni non a chi produce, ma a chi consuma i beni e servizi. In questo scenario, l’impronta di Europa e Stati Uniti cresce enormemente, perché gran parte della loro economia si fonda su beni importati e ad alta intensità di carbonio.
Il metodo oggi usato nei negoziati internazionali (ONU, Accordo di Parigi) è quello di produzione: si calcolano le emissioni generate all’interno dei confini di un Paese. Ma se guardiamo al metodo di consumo, cioè alle emissioni incorporate nei beni e servizi che effettivamente utilizziamo, l’immagine cambia radicalmente.
E qui entra in gioco anche l’Italia.

L’ITALIA: VIRTUOSA O SOLO APPARENTEMENTE?
Secondo i dati ISPRA, l’Italia ha ridotto le emissioni territoriali del 20-25% rispetto ai livelli del 1990. Una buona notizia, che viene spesso utilizzata nel dibattito politico come segno di “virtuosità” climatica.
Ma se spostiamo lo sguardo alle emissioni da consumo, il quadro è meno lusinghiero:

  • L’Italia è tra i principali importatori europei di beni a elevata intensità di carbonio (acciaio, cemento, prodotti chimici, tessile). Gran parte arriva da Paesi come Cina, India e Turchia.
  • Nel settore moda, ad esempio, la delocalizzazione verso l’Asia significa che una quota significativa delle emissioni legate al “Made in Italy” non compare nei nostri inventari ufficiali.
  • Nei trasporti e nell’energia, gran parte delle emissioni legate ai carburanti importati rimane “nascosta” nella contabilità globale.

In altre parole, una parte del nostro apparente successo climatico si deve al fatto che abbiamo spostato altrove l’impatto ambientale delle nostre filiere.

POLITICHE ITALIANE ED EUROPEE
L’Italia, come tutti gli Stati membri UE, partecipa al nuovo Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM), che introdurrà dazi sulle importazioni di settori ad alta intensità di carbonio. È uno strumento che riguarda molto da vicino la nostra economia, perché i nostri settori energivori (acciaio, ceramica, cemento) temono di perdere competitività se non protetti da regole simili.
Ma qui si apre una domanda cruciale:

  • Vogliamo limitarci a spostare la produzione all’estero e a importare beni “sporchi”?
  • Oppure vogliamo affrontare davvero il nodo della responsabilità dei consumi, rivedendo i nostri modelli di sviluppo e di domanda interna?

Un elegante smartphone fluttua al centro dell'attenzione, con lo schermo che esplode di luci colorate su uno sfondo diviso in blu elettrico e rosso corallo. Diverse mani si allungano verso l'interno da tutte le direzioni, creando un senso di desiderio e connessione con il dispositivo. Particelle di luce gialle e verdi esplodono verso l'esterno, enfatizzando il fascino magnetico del telefono. L'illuminazione laterale crea profondità e dimensione, mentre il telefono rimane a fuoco su uno sfondo leggermente sfocato. Questa rappresentazione visiva cattura l'essenza della tecnologia che unisce le persone attraverso l'entusiasmo e l'interazione condivise.GIUSTIZIA CLIMATICA: CHI È RESPONSABILE?
Qui entra in gioco la giustizia climatica. È giusto attribuire tutta la responsabilità ai Paesi produttori, quando la loro crescita è trainata dalla domanda occidentale? È equo che i Paesi ricchi si vantino di aver ridotto le emissioni, mentre in realtà hanno semplicemente spostato le fabbriche altrove?
Nei negoziati internazionali questo conflitto è evidente:

  • i Paesi emergenti chiedono che le loro emissioni “per conto terzi” siano considerate diversamente;
  • i Paesi industrializzati preferiscono restare al modello di produzione, che li fa apparire più virtuosi.

DAL NEGOZIATO GLOBALE AL CARRELLO DELLA SPESA
La questione non riguarda solo i governi. Anche le aziende e i cittadini sono coinvolti.

  • Molte imprese pubblicano bilanci ambientali che mostrano basse emissioni dirette, ma omettono quelle della catena di fornitura (scope 3), cioè la parte più consistente.
  • Ogni consumatore europeo o americano ha un’impronta carbonica “nascosta” nelle merci importate: si stima che in Paesi come il Regno Unito o la Germania le emissioni legate ai consumi superino del 30-40% quelle conteggiate ufficialmente.

POLITICHE IN CERCA DI GIUSTIZIA
Alcuni strumenti stanno cercando di correggere questa stortura. L’Unione Europea, con il Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM), ha introdotto un dazio sul carbonio per i prodotti importati da Paesi con standard ambientali più deboli. È un passo avanti, ma non risolve la questione di fondo: chi deve cambiare davvero i propri modelli di vita ed economia?

LA VERITÀ DIETRO I NUMERI
La misurazione delle emissioni non è solo un esercizio statistico: è una scelta morale. Decidere se contare per produzione o per consumo significa decidere chi porta il peso della transizione ecologica.
Ed è qui che emerge la vera domanda della giustizia climatica: possiamo continuare a vivere come se la responsabilità fosse altrove, mentre l’impatto reale dei nostri consumi si scarica su altre economie e altri popoli?

Giuseppe d’Ippolito