Il 25 giugno, all’Aja, i 32 Paesi membri della NATO hanno compiuto un passo epocale, che il Segretario Generale Mark Rutte ha definito un vero e proprio “salto trasformativo” nella storia dell’Alleanza Atlantica. In un contesto geopolitico sempre più incerto e segnato da tensioni crescenti, i leader mondiali hanno preso una decisione di portata storica: aumentare la spesa complessiva per la difesa fino al 5% del PIL entro il 2035. Un impegno senza precedenti, che prevede una ripartizione precisa delle risorse, con il 3,5% destinato alla difesa tradizionale – armi, eserciti, tecnologia militare – e l’1,5% riservato a settori cruciali come infrastrutture strategiche, cyber-sicurezza e resilienza civile. Questa mossa è stata accolta come una vittoria di rilievo nel panorama internazionale, celebrata da figure di spicco come Donald Trump, ma anche da leader moderati e progressisti come Keir Starmer, Emmanuel Macron, Friedrich Merz e Giorgia Meloni. Tutti condividono la stessa urgenza: rafforzare un fronte unito e solido di fronte alle minacce globali che si profilano all’orizzonte, dalla competizione con potenze emergenti alle nuove forme di conflitto ibrido. Tuttavia, proprio mentre la NATO scommette su un massiccio potenziamento militare, si impone con forza una domanda cruciale e inquietante: questa scelta strategica rischia di mettere in ombra altre emergenze di portata globale, a partire dalla sicurezza climatica? In un mondo in cui le catastrofi naturali si moltiplicano e la crisi ambientale avanza senza sosta, quale sarà il destino delle risorse pubbliche? Se una quota così significativa del PIL viene canalizzata verso gli armamenti, quali margini rimangono per investire nella difesa del pianeta, nella prevenzione di disastri climatici, e nella costruzione di una resilienza ambientale indispensabile per le generazioni future? È questo il dilemma epocale davanti a cui si trova oggi la comunità internazionale: trovare un equilibrio tra sicurezza tradizionale e sicurezza climatica, tra difesa militare e difesa della Terra stessa, in una sfida che va ben oltre i confini degli Stati e dei conflitti armati, toccando il futuro stesso della nostra civiltà.

 

 

 All’Aja, il 25 giugno, la NATO ha fatto la sua scelta. I 32 Paesi membri dell’Alleanza hanno concordato di aumentare progressivamente la spesa militare fino al 5% del Prodotto Interno Lordo entro il 2035. Una soglia mai vista in tempi di pace. Secondo il nuovo accordo, il 3,5% sarà destinato alle forze armate convenzionali, mentre l’1,5% sarà impiegato per infrastrutture critiche, sicurezza cibernetica e resilienza civile.
L’Italia ha votato a favore, accodandosi al fronte guidato da Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Germania. Una posizione che il governo ha definito “responsabile e lungimirante”, ma che solleva interrogativi profondi sul futuro delle politiche ambientali e sulla sostenibilità economica del nostro Paese.

SICUREZZA PER CHI, SICUREZZA DA COSA?
Il nuovo assetto strategico della NATO arriva in un momento in cui l’Europa è già attraversata da tensioni politiche, rialzi dei prezzi, emergenze migratorie e, soprattutto, dagli effetti sempre più devastanti della crisi climatica. In questo scenario, destinare fino al 5% del PIL alla difesa militare significa, per l’Italia, un investimento annuo di oltre 100 miliardi di euro.
È legittimo chiedersi: da dove verranno presi questi fondi? Se il bilancio pubblico non crescerà in modo proporzionale – e al momento non ci sono segnali in tal senso – è altamente probabile che altre voci vengano sacrificate. E le prime candidate al taglio sono proprio quelle legate alla transizione ecologica e alla protezione ambientale, considerate da alcuni settori politici come “non urgenti” o “non redditizie”.
Nel cuore di una crisi climatica senza precedenti, mentre l’Europa affronta ondate di calore, incendi, siccità e alluvioni sempre più devastanti, una nuova priorità politica avanza silenziosa ma determinata: l’aumento delle spese militari fino al 5% del PIL nazionale.
Sostenuta da alcuni governi e think tank atlantisti, questa proposta – che supererebbe di gran lunga l’obiettivo del 2% precedentemente fissato dalla NATO – viene giustificata con la necessità di rafforzare la sicurezza europea in un mondo segnato da nuove guerre e minacce geopolitiche. Ma a che prezzo?

UNA QUESTIONE DI SCELTE, NON SOLO DI NUMERI
Parliamoci chiaro: destinare il 5% del Prodotto Interno Lordo alla spesa militare significherebbe, per un Paese come l’Italia, oltre 100 miliardi di euro l’anno. A confronto, gli investimenti per la transizione ecologica – già ridimensionati nei bilanci post-pandemici – rischierebbero di apparire come spese “secondarie“, tagliabili, rinviabili.
Eppure, la crisi climatica è già qui. Ogni grado in più, ogni evento estremo, ogni ecosistema compromesso ci avvicina a un punto di non ritorno. Parlare di sicurezza senza considerare quella climatica è miope. La vera guerra del XXI secolo è contro il collasso ambientale.

LA SICUREZZA NON SI MISURA SOLO IN CARRI ARMATI
Cosa vuol dire “sicurezza” oggi? È solo questione di confini, droni e sistemi antimissile? O include anche la capacità di resistere a un’estate di incendi, a un raccolto distrutto dalla siccità, alla migrazione forzata di milioni di persone per fame e sete?
Investire nella sicurezza climatica – attraverso infrastrutture resilienti, energia rinnovabile, protezione della biodiversità e prevenzione dei disastri – è un atto di difesa nazionale, anche se non prevede divise e parate.

IL RISCHIO DI UNA TRANSIZIONE ARMATA
La corsa al riarmo rischia di cannibalizzare ogni spazio politico e finanziario. Già oggi, molte misure del Green Deal europeo sono state rallentate o sospese. Le proteste degli agricoltori, la paura dell’inflazione e la crescita dei movimenti sovranisti stanno spingendo l’Europa a scegliere l’urgenza militare al posto della necessità ecologica.
Ma rinviare la transizione verde per finanziare la corsa agli armamenti è una scommessa pericolosa. Potremmo ritrovarci con eserciti potenti in un mondo devastato, con più missili ma meno acqua potabile, con più droni ma meno suolo fertile.

LA SICUREZZA CLIMATICA, GRANDE ASSENTE NEL DIBATTITO
La parola “sicurezza” è tornata prepotentemente al centro del discorso politico, ma con un’accezione limitata: confini, armi, deterrenza. Quasi nessuno, nei comunicati ufficiali, ha parlato di sicurezza climatica. Eppure, è proprio questa la minaccia sistemica più grave per le generazioni presenti e future.
Ogni anno in Italia la crisi climatica costa miliardi in danni diretti: alluvioni, frane, siccità, incendi boschivi. Il 2023 è stato l’anno con il maggior numero di eventi estremi mai registrato nel nostro Paese. Ma i fondi stanziati per l’adattamento climatico e la prevenzione restano modesti e frammentari. Se saranno ulteriormente ridotti per alimentare la corsa al riarmo, il prezzo da pagare sarà altissimo.

IL GRANDE PARADOSSO: PREPARARSI ALLA GUERRA IGNORANDO L’EMERGENZA GIÀ IN CORSO
Il rischio è che l’Europa – e l’Italia con essa – si stia preparando con grande zelo a conflitti ipotetici, ignorando quelli già in corso: non tra eserciti, ma tra umanità e instabilità climatica. Le risorse naturali sono sotto pressione, le migrazioni climatiche sono in aumento, e la sicurezza alimentare è sempre più vulnerabile.
In questo contesto, aumentare esponenzialmente la spesa militare senza un piano chiaro per garantire parallelamente investimenti ambientali significa disegnare una strategia di difesa che protegge il presente e abbandona il futuro.

UN BIVIO POLITICO E MORALE
Il voto dell’Italia all’Aja non è solo un atto geopolitico: è una dichiarazione di priorità. E le priorità si traducono in bilancio.
Se il governo vuole mantenere fede agli impegni ambientali, come quelli previsti dal Green Deal europeo, dovrà dimostrare che non intende finanziare i nuovi carri armati tagliando le energie rinnovabili, i trasporti puliti, la rigenerazione del territorio e la lotta contro il dissesto idrogeologico.
Altrimenti, quella che oggi viene chiamata “difesa” diventerà una parola vuota. Perché non esisterà nessuna vera sicurezza in un Paese che non sa più proteggere il suo suolo, la sua aria, la sua acqua

CONCLUSIONE: DIFENDERE IL FUTURO, NON SOLO IL PRESENTE
Aumentare la spesa militare non è di per sé sbagliato. Ma portarla al 5% del PIL senza una strategia integrata di sicurezza umana e ambientale significa sacrificare il futuro sull’altare della paura.
Serve un nuovo paradigma: un’idea di sicurezza che includa il clima, la giustizia sociale, la salute pubblica, la sostenibilità economica. Perché nessun confine sarà sicuro se il pianeta non lo è.
Possiamo ancora scegliere. Ma il tempo stringe.

Giuseppe d’Ippolito