Nel 1982, davanti alle rovine silenziose di Hiroshima, Alberto Moravia scriveva parole che oggi risuonano come una profezia: “Non mi sento più italiano. Né europeo. Sono soltanto un essere umano.” In quelle righe, lo scrittore non si limitava a un gesto di solidarietà con le vittime del primo bombardamento nucleare della storia: denunciava il fallimento morale e politico della modernità, capace di produrre armi così potenti da poter annientare l’intera specie. Moravia capiva, già allora, che davanti alla minaccia dell’estinzione non esistono nazioni, civiltà o identità che tengano. Esiste solo l’essere umano, nella sua nudità biologica e nella sua responsabilità collettiva. Oggi, più di quarant’anni dopo, quelle parole tornano a bussare con violenza alla porta della nostra coscienza. Non solo perché lo spettro della guerra nucleare si riaffaccia in modo concreto, alimentato dalla guerra in Ucraina, dalle provocazioni tra Russia e Occidente, e — da ultimo — dal rischio di un’escalation tra Israele e Iran. Ma anche — e soprattutto — perché stiamo vivendo una minaccia ancora più subdola, pervasiva, universale: la crisi climatica globale. Quella di oggi non è più solo una questione geopolitica. È una questione di sopravvivenza della specie. Le bombe atomiche minacciano di cancellare l’umanità in un lampo. Ma il cambiamento climatico — altrettanto generato dall’uomo, altrettanto irreversibile oltre certi limiti — ci sta già condannando a una morte lenta, distribuita in secoli, a partire dai più fragili. Alluvioni, incendi, carestie, migrazioni di massa e collasso ambientale: una guerra silenziosa contro la Terra, combattuta ogni giorno con l’inerzia, la negazione e la complicità delle nostre abitudini. Nel momento in cui le logiche della deterrenza nucleare e quelle della devastazione ecologica si intrecciano in un’unica traiettoria autodistruttiva, le parole di Moravia assumono un valore che non è più solo letterario, ma profondamente politico ed esistenziale. Non possiamo più pensare come italiani, europei, americani, cinesi o russi. Dobbiamo imparare a pensare come esseri umani. Ed è proprio questa, forse, la più difficile delle rivoluzioni. Nel corpo dell’articolo che segue, esplorerò come la minaccia atomica e quella climatica non siano separate, ma parte di un’unica crisi della modernità; come entrambe richiedano di abbandonare i paradigmi della sovranità, del dominio, del consumo illimitato. E come solo una coscienza planetaria — l’ultima possibile eredità dell’umanesimo — potrà evitare che la nostra civiltà faccia di Hiroshima non un monito, ma un destino.

 

 

Nel 1982, durante una visita a Hiroshima, Alberto Moravia scrisse una delle sue pagine più radicali e inquietanti. In quella Lettera da Hiroshima, pubblicata su L’Espresso, lo scrittore romano affermava con disarmante lucidità di non sentirsi più italiano, né europeo, ma semplicemente “un essere umano”. Davanti alle rovine dell’olocausto nucleare, la nazione, la cultura, l’identità occidentale svanivano: restava solo l’appartenenza biologica e morale alla specie, una specie in pericolo di estinzione se non fosse stata fermata la corsa agli armamenti atomici.
A più di quarant’anni di distanza, quella visione ritorna, sinistramente attuale. Le ombre di Hiroshima non sono scomparse: oggi tornano a farsi minacciose attraverso i venti di guerra che soffiano da Est e dal Medio Oriente. Il conflitto tra Russia e Ucraina ha riportato in primo piano lo spettro dell’impiego di armi nucleari tattiche. E la recente escalation tra Israele e Iran ha evocato, forse per la prima volta in modo esplicito, il rischio concreto che un’azione militare degeneri in un conflitto regionale con implicazioni nucleari.
Siamo di nuovo, come nel 1982, di fronte all’abisso. Eppure, c’è qualcosa di più, di peggio: oggi l’umanità affronta una seconda minaccia esistenziale, lenta ma altrettanto letale, che agisce come una guerra a bassa intensità contro la vita stessa. È la crisi climatica globale.

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NUCLEARE E CLIMA: DUE FACCE DELLA STESSA MINACCIA
Apparentemente distanti — una esplosiva e immediata, l’altra progressiva e invisibile — la minaccia nucleare e quella climatica condividono una caratteristica fondamentale: mettono in discussione la possibilità stessa della vita umana organizzata sulla Terra.
Una guerra nucleare potrebbe distruggere la civiltà in pochi giorni. Il cambiamento climatico potrebbe farlo in pochi decenni, con eventi estremi, migrazioni forzate, carestie, collasso delle economie e dei sistemi sanitari. In entrambi i casi, nessuna nazione sarà al sicuro. Nessuna identità nazionale potrà servire da scudo. Come Moravia intuiva, quando la specie è minacciata, “non ci si può più sentire cittadini di una nazione, ma soltanto esseri umani”.

L’ILLUSIONE DELLA SOVRANITÀ IN UN MONDO CHE BRUCIA
La geopolitica moderna continua a ragionare in termini di confini, deterrenza, interessi strategici. Ma questa logica, figlia del Novecento, si infrange contro la realtà del XXI secolo: non possiamo più pensare in termini di “noi” contro “loro” quando le bombe e i disastri colpiscono tutti. E se le armi nucleari ci ricordano la possibilità di un’estinzione istantanea, la crisi climatica ci mostra quella dell’agonia collettiva.
I Paesi discutono di quote di emissioni, di confini verdi, di transizioni lente. Intanto la temperatura globale sale, i ghiacci si sciolgono, le città costiere preparano piani di evacuazione, e milioni di persone migrano non solo per le guerre, ma anche per la fame causata dalla desertificazione.
Moravia, da Hiroshima, parlava già al nostro tempo. La sua affermazione non era solo un moto etico, ma un’intuizione politica: davanti a minacce sistemiche, globali, non possiamo più affidarci alla logica dei confini e delle nazioni. Serve un salto di paradigma.

DALLA COSCIENZA NAZIONALE A QUELLA PLANETARIA
Nel mondo odierno, il patriottismo climatico è un’illusione. Non esiste un’Italia resiliente in un’Europa collassata. Non ci sarà un’America al sicuro in un’Asia sommersa. La sopravvivenza sarà collettiva o non sarà.
Occorre costruire una coscienza planetaria. Non si tratta solo di fermare le emissioni o rinunciare ai combustibili fossili. Si tratta di ripensare radicalmente il nostro modo di stare al mondo, riconoscendo che la nostra esistenza dipende da un sistema fragile e interdipendente, il cui equilibrio non può più essere trattato come variabile secondaria.

HIROSHIMA È OVUNQUE
Moravia ha visto in Hiroshima l’immagine del punto di non ritorno. Oggi, il nostro Hiroshima è diffuso, permanente e silenzioso. Si manifesta nelle fiamme dell’Amazzonia, nei ghiacci dell’Antartide che si sgretolano, nelle alluvioni che devastano l’Europa e nei deserti che avanzano in Africa. Ogni catastrofe naturale non è più “naturale”: è un segnale, un avvertimento. È l’equivalente contemporaneo del fungo atomico.
Eppure, proprio come allora, abbiamo una scelta. Possiamo continuare a dividerci per potere, ideologie, religioni e risorse. Oppure possiamo riconoscere che l’unico modo per sopravvivere è unirci come specie, e agire di conseguenza.

CONCLUSIONE: UNA VOCE DA ASCOLTARE
Rileggere oggi le parole di Moravia non è solo un esercizio culturale. È un richiamo urgente alla lucidità. Mentre la minaccia nucleare torna ad affacciarsi e la crisi climatica si aggrava ogni giorno, non possiamo più permetterci l’indifferenza o la speranza cieca nella tecnologia o nel mercato.

O riconosciamo di essere solo esseri umani — vulnerabili, interconnessi, destinati a convivere su un pianeta in pericolo — o saremo gli ultimi testimoni di una civiltà che, pur sapendo, ha scelto di non cambiare.

Giuseppe d’Ippolito

Il testo integrale della “Lettera da Hiroshima” di Alberto Moravia non è disponibile  online. Tuttavia, si può trovare il testo completo nel volume L’inverno nucleare, pubblicato da Bompiani nel 1986. Questa raccolta include articoli di Moravia sull’energia nucleare e il disarmo, tra cui la “Lettera da Hiroshima”.
In alternativa, una lettura del testo è disponibile su YouTube cliccando qui