
Nel maggio 2025, la Commissione Europea ha rilanciato la semplificazione della Politica Agricola Comune (PAC), suscitando entusiasmo tra le principali organizzazioni agricole come Coldiretti, ma anche profonde perplessità. L’articolo smaschera l’apparente neutralità tecnica della riforma, denunciandone l’effetto più tangibile: l’arretramento delle ambizioni ambientali dell’Unione. Mentre si celebra la “semplificazione”, si legittima un cambio di rotta che riduce i controlli, allenta gli obblighi ecologici e lascia i piccoli agricoltori più esposti alle crisi climatiche. Laccone offre una riflessione ampia e critica sul senso politico originario della PAC, la sua trasformazione storica e le gravi omissioni strategiche dell’attuale dibattito, che rinuncia a immaginare un futuro agroalimentare sostenibile in nome di una presunta competitività. Un contributo che invita a superare la retorica burocratica per tornare a interrogarsi sulle finalità collettive e sul ruolo dell’agricoltura nel progetto europeo.
La Commissione Europea a maggio scorso ha lanciato la proposta di semplificare la Politica Agricola Comune (PAC) a cui è seguita, quasi immediatamente, una ulteriore proposta di rilancio delle modifiche da apportare da parte della Coldiretti (la maggiore organizzazione di agricoltori italiana) – tutte volte ad una ulteriore “semplificazione”. Nell’immediato dibattito che ne è seguito le critiche e i consensi si sono sviluppate attorno a due punti essenziali della riforma proposta: la cosiddetta “semplificazione” e l’abbandono di alcune pratiche eco ambientali ritenute troppo stringenti. Una discussione avvenuta dimenticando – a mio avviso – il senso che ha una riforma in campo agricolo: un senso onnicomprensivo, di orientamento per le comunità e non solo per gli agricoltori. Infatti, il dibattito è importante soprattutto per i consumatori, data l’entità numerica esigua degli agricoltori, trattandosi di indicazioni che andranno a organizzare il sistema agroalimentare ed orientare la produzione e il consumo per anni, se non addirittura per decenni.
Personalmente sono molto meravigliato dai toni piuttosto trionfalistici per le modifiche apportate alla normativa di rispetto ambientale, le cui maglie diventeranno più larghe sotto la motivazione di ridurre la burocrazia in campo agricolo. Mi meraviglia sia il fatto che a considerare la normativa sostanzialmente sbagliata – senza una profonda autocritica – è la stessa maggioranza che aveva dato le indicazioni eco ambientali in precedenza, sia perché ammettere che ci si fosse sbagliati in passato sarebbe una buona cosa, ma bisognerebbe sostenerla con elementi di valutazione dell’insuccesso, che invece non ci sono. In realtà l’insuccesso è di strategia politica generale e di relazioni internazionali per cui, per evitare una discussione che romperebbe in mille pezzi l’assetto comunitario già pericolosamente incrinato da guerre (commerciali e reali), la riforma si incentra su aspetti tecnici, sotto frasi già udite in occasione delle altre precedenti riforme: “semplificare la politica agricola comune per sostenere gli agricoltori e rafforzare la competitività e la resilienza del settore”.
Le proposte di “regime di pagamento semplificato per i piccoli agricoltori, di requisiti e controlli ambientali semplificati, di rafforzamento della gestione delle crisi e semplificazione delle procedure per le amministrazioni nazionali” vogliono dire, nei fatti, pensare di tutelare le produzioni da siccità ed alluvioni attraverso un aumento del contributo forfettario per i piccoli produttori, la riduzione del numero e della qualità dei controlli in campagna, lo scaricamento del costo delle crisi agricole generate da fattori economici ed ambientali alle amministrazioni nazionali e l’obbligo generalizzato di assicurazione contro gli eventi catastrofici. Ma quando un piccolo o medio agricoltore si vedrà ridurre o danneggiare la produzione per una inondazione, una tempesta o una siccità arrivate per la terza volta in sette anni, difficilmente questi strumenti faranno ritornare la fiducia nel coltivare la terra e venir meno la tentazione di spiantare tutto e montare pannelli fotovoltaici…
La reale motivazione, non detta nei documenti ufficiali, ma ripetuta dai responsabili politici delle maggiori organizzazioni di settore, è che “la UE si è spinta troppo in avanti su politiche ambientali in settori come l’industria automobilistica o l’agricoltura, mentre il resto del pianeta viaggia con un passo molto più tranquillo nel campo delle tutele ambientali a vantaggio della produttività, un passo a cui dovremmo adeguarci”. Come se il compito della UE – aggiungo – sia quello di restare a rimorchio di altri Paesi che, sviluppando le tutele ambientali, diventerebbero l’avanguardia in questi settori.
Chi conosce la PAC sa bene perché essa sia stata inserita tra i settori da mettere in comune nel lontano 1958, nonostante in principio non fosse stata presa in considerazione come settore strategico: l’agricoltura coinvolgeva più di un terzo dei cittadini delle nazioni uscite dalla Seconda guerra mondiale, i problemi di sostentamento non erano stati ancora superati e le macerie e le distruzioni erano ben visibili dappertutto. Ricostruendo la sua storia, sono evidenti le motivazioni attraverso cui essa è diventata così importante da essere, fino al trattato di Maastricht, il principale strumento di creazione comunitaria, il luogo in cui sono state sperimentate le diverse politiche in grado di aggregare i Paesi sino a giungere all’attuale Unione Europea. In principio le motivazioni per creare la PAC come base del Mercato Comune Europeo (MEC) furono essenzialmente politiche: dare una prospettiva politica a Paesi che nelle due guerre mondiali avevano perso progressivamente ruolo e territori conquistati (le colonie); costruire una barriera alla nascente egemonia comunista dell’URSS; creare una base politica che permettesse di attenuare le tensioni tra gli Stati protagonisti dei due grandi conflitti e favorisse l’industrializzazione del continente. Chiarita la base politica, si realizzò tra i sei Paesi fondatori del MEC lo scambio economico sulla base delle tendenze nazionali: si sarebbe garantito lo sbocco delle produzioni industriali a Paesi come la Germania (industria pesante) e l’Italia (piccola produzione industriale) e favorito quello delle produzioni agricole di Francia (grande produttrice agricola) e Olanda (grande commerciante di derrate alimentari), con il supporto amministrativo finanziario del Belgio che ne sarebbe stato il sostegno strutturale e del Lussemburgo per le basi finanziarie. La stabilità e lo sviluppo realizzati per alcuni decenni e la solidità del sistema creato hanno permesso il progressivo allargamento sino a rendere il sistema europeo comunitario un colosso economico commerciale che passava sempre più da una politica di sicurezza alimentare interna ad una di conquista commerciale dei mercati internazionali. Alla fine degli anni Ottanta si crearono notevoli contenziosi internazionali nei più diversi campi commerciali, tanto da indurre a realizzare un grande strumento organizzativo – il WTO – da affiancare alle altre grandi istituzioni (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale) attraverso un accordo sul commercio globale (GATT) in cui far rientrare per la prima volta anche l’agricoltura. I trent’anni trascorsi dalla creazione del WTO con l’inclusione del commercio agricolo, non hanno prodotto i frutti sperati e ad un primo aumento delle transazioni è seguita una fase di stallo e di sostanziale recessione delle grandi potenze economiche. Spesso le tensioni da commerciali sono passate a politico-militari e i danni prodotti dai cambiamenti climatici sono serviti ad acuire le distanze socioeconomiche tra Paesi e non a favorire la cooperazione.
La politica agricola a livello internazionale non è stata più lo strumento di crescita e passaggio ad una politica industriale, ma solo uno strumento di espansione del commercio e dello sviluppo finanziario. A livello comunitario, cadute ad una ad una le ragioni iniziali della PAC, si fatica a trovare delle nuove motivazioni sostanziali e si ripetono retoricamente i principi fondanti la politica comune. In realtà non sarebbe difficile trovarne altre, ma questo stravolgerebbe gli assetti di potere e farebbe aprire gli occhi sulla nuova realtà che si va disegnando nel mondo.
La UE, nei fatti, sta riscrivendo le motivazioni politiche che spingono alla creazione dell’Unione, ma lo fa vergognandosi di dirlo, perché esse contrasterebbero con la retorica creatasi attorno al nome: una retorica fatta di parole quali “pace, progresso, benessere”.
Non si trovano finanziamenti sufficienti a realizzare le trasformazioni per garantire buone condizioni di vita nonostante il cambiamento climatico, ma se ne trovano per aumentare le spese militari, aumento giustificato “per garantire la sicurezza”. Non si dice che si riducono i finanziamenti ambientali a vantaggio della produzione di armi, anche perché sarebbe ridicolo pensare ad un uso ecologico dell’espansione militare. Non si dice che il problema energetico è tale da rendere necessario un mercato comune dell’energia da affiancare all’agricoltura, magari più diffuso ed importante di essa. Non si dice che la condizione essenziale per fare ripartire i finanziamenti in campo alimentare è la creazione di un fondo finanziario europeo comune della pesca e dell’agricoltura che toglierebbe potere ai singoli Stati ma garantirebbe futuro ai settori produttivi. Si offre il contentino della rinazionalizzazione delle strategie di settore, come se questo potesse dare respiro ad un continente che vede cambiare le condizioni climatico-economiche per le produzioni tradizionali delle aree. Si incentiva l’investimento tecnologico per aumentare la produttività, ma non si dice che le rese delle produzioni europee sono già ai massimi livelli mondiali ed il problema non è l’aumento della produttività, ma il mantenimento di queste rese a fronte di una progressiva perdita di fertilità dei suoli e di riduzione della biodiversità sulla terra e nel mare (i reali problemi) a causa dell’inquinamento; nessuna tecnologia ci ridarà degli accettabili livelli di fertilità dei suoli e di ricchezza di specie viventi sul pianeta.
Di tutto ciò non vi è traccia nella polemica da cortile sulla riforma della PAC ma forse il malcontento che serpeggia nelle campagne e lo scetticismo dei consumatori verso i prodotti alimentari acquistati porteranno un minimo di realismo tra i responsabili del settore agricolo.
Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti