
In politica, le parole non sono mai innocenti. Alcuni termini, apparentemente neutri o conciliatori, nascondono vere e proprie strategie discorsive finalizzate a depotenziare il conflitto, disinnescare il dissenso, rimandare decisioni scomode. Tra queste parole, negli ultimi anni, “equilibrio” ha assunto un ruolo centrale nel lessico politico italiano ed europeo, venendo spesso utilizzata come chiave interpretativa delle scelte governative in materia di ambiente, salute, geopolitica, economia. È una parola che sembra nobile e in sé non è negativa: richiama alla mente l’immagine di un saggio funambolo che avanza prudentemente tra due estremi, con calma e razionalità. Ma cosa accade quando l’equilibrio diventa una scusa per evitare di scegliere? Quando viene brandito come scudo contro le urgenze etiche che il nostro tempo impone? Assistiamo oggi a un uso inflazionato, quasi ossessivo, di questo concetto in contesti che non tollerano mediazioni passive: la crisi climatica globale, la restaurazione degli ecosistemi degradati, la gestione cooperativa delle pandemie, le responsabilità del diritto internazionale umanitario nei conflitti armati. In questi casi, le scelte non possono essere rimandate o annacquate in nome di un presunto “equilibrio”. Il clima non attende che l’economia nazionale si adegui gradualmente; i focolai pandemici non rispettano la lentezza delle burocrazie sovrane; la tutela della vita civile non può essere subordinata alla prudenza diplomatica. Eppure, in Italia – e non solo – l’equilibrio viene evocato con sistematicità come se fosse l’unico valore legittimo, superiore persino all’urgenza morale. Il Green Deal europeo va “riequilibrato” per non danneggiare i settori produttivi interni. La Nature Restoration Law viene ritardata perché va trovato un punto d’equilibrio tra ambiente e agricoltura. L’accordo pandemico dell’OMS viene sospettato di minare l’equilibrio tra poteri sovranazionali e Stati. E persino di fronte a un massacro umanitario – come quello in corso a Gaza – si chiede equilibrio tra il diritto alla difesa e la condanna dei crimini di guerra, come se questi due elementi fossero moralmente equiparabili. In ciascuno di questi casi, l’equilibrio si presenta come una maschera. Una forma di prudenza che si trasforma in paralisi, una ricerca del consenso che si tramuta in silenzio complice. È necessario, allora, interrogarsi sul senso profondo di questa parola: cosa vuol dire davvero “equilibrio” quando ci troviamo davanti a decisioni che incidono sulla sopravvivenza degli ecosistemi, sulla vita di milioni di persone, sulla tenuta del diritto internazionale? E soprattutto: l’invocazione dell’equilibrio è sempre legittima, o a volte è solo un dispositivo retorico per evitare di assumersi responsabilità? Questo articolo nasce proprio da questo interrogativo. Analizzerò quattro casi emblematici in cui il governo italiano – e, in misura variabile, anche altre istituzioni – ha invocato la necessità di “trovare l’equilibrio” per giustificare scelte politiche controverse o rinvii strategici: la revisione del Green Deal, l’ostilità verso la Nature Restoration Law, l’astensione sull’accordo pandemico dell’OMS e il voto contrario alla mozione europea contro le operazioni israeliane a Gaza. Quattro episodi diversi ma legati da un filo comune: l’uso dell’equilibrio come scudo linguistico per sottrarsi a una gerarchia etica delle priorità. Perché ci sono momenti, nella storia e nella politica, in cui l’equilibrio non è una virtù, ma un ritardo colpevole. E oggi, in un mondo che brucia – letteralmente e metaforicamente – non abbiamo più il lusso dell’equidistanza.
Negli ultimi anni, e con sempre maggiore insistenza, il linguaggio politico italiano ha fatto del termine “equilibrio” una formula ricorrente, quasi taumaturgica, per giustificare decisioni o non-decisioni su questioni di portata epocale: la crisi climatica, la tutela degli ecosistemi, la pandemia, i conflitti globali. Ma cosa si nasconde dietro questa parola? È davvero una virtù mediana aristotelica, o piuttosto una copertura retorica per evitare di assumere posizioni eticamente scomode ma necessarie?
IL LESSICO DELL’AMBIGUITÀ
Il termine “equilibrio” evoca razionalità, ponderazione, saggezza. In un contesto polarizzato, parlare di equilibrio suona rassicurante. Ma quando viene evocato sistematicamente per sospendere decisioni urgenti, neutralizzare l’etica e mantenere lo status quo, esso rischia di diventare uno strumento di deresponsabilizzazione. È ciò che sembra accadere oggi in Italia, dove il governo giustifica alcune delle scelte (o non-scelte) più critiche per la sopravvivenza del pianeta, della salute pubblica e della dignità umana con la necessità di “trovare un equilibrio”.
GREEN DEAL E INTERESSI ECONOMICI NAZIONALI
Il Green Deal europeo, lanciato nel 2019 dalla Commissione von der Leyen, mira alla neutralità climatica entro il 2050. In Italia, però, il dibattito si è progressivamente incentrato sulla necessità di “trovare l’equilibrio tra transizione ecologica e interessi economici interni“. Tale posizione ha giustificato rinvii, deroghe e resistenze a norme ambientali europee. Ma si può davvero parlare di equilibrio quando la posta in gioco è la sopravvivenza climatica? Quando lo stesso IPCC avverte che ogni frazione di grado conta per evitare il collasso?
In questo contesto, l’equilibrio diventa sinonimo di rallentamento, compromesso al ribasso, concessione a settori economici che non vogliono – o non sanno – riconvertirsi. Ma le leggi fisiche del clima non negoziano. E non esistono “interessi nazionali” in un mondo devastato dall’innalzamento dei mari, dalla desertificazione o dalla crisi idrica.
NATURE RESTORATION LAW E IL MITO DELL’AGRICOLTURA TRADIZIONALE
Un altro esempio è la Nature Restoration Law, il regolamento UE volto a ripristinare almeno il 20% delle aree naturali degradate entro il 2030. L’Italia ha osteggiato la proposta, sostenendo che serve “equilibrio tra tutela degli ecosistemi e agricoltura tradizionale“. Ma la verità è che il degrado ecologico sta già minacciando la stessa agricoltura, attraverso siccità, perdita di impollinatori, erosione del suolo. Proteggere la natura è anche un investimento nella sicurezza alimentare. Il vero squilibrio è continuare a sostenere un’agricoltura basata su monocolture intensive, pesticidi e spreco d’acqua. La “tradizione” agricola evocata è spesso una caricatura che serve a difendere rendite di posizione.
L’ACCORDO PANDEMICO DELL’OMS E LA SOVRANITÀ NAZIONALE
Il 20 maggio, l’Assemblea Mondiale della Sanità ha approvato l’Accordo pandemico globale, frutto di anni di negoziati post-COVID. L’Italia si è astenuta, motivando la scelta con la necessità di trovare “un equilibrio tra la sovranità nazionale e il ruolo degli organismi internazionali”. Ma di quale sovranità si parla quando si tratta di prevenire pandemie che, per loro natura, non conoscono confini? In un mondo interconnesso, la salute globale richiede strumenti comuni e vincolanti. Astenersi equivale a sottrarsi alla responsabilità di cooperare.
Gaza, Israele e il boicottaggio: l’equilibrismo morale
Sul piano geopolitico, l’Italia ha votato contro la mozione di 17 Paesi europei che proponevano sanzioni o boicottaggi verso Israele per le operazioni militari a Gaza, che le Nazioni Unite e numerose ONG hanno definito come crimini contro l’umanità. Il governo italiano ha giustificato il voto con il solito refrain: “serve equilibrio tra il diritto alla difesa di Israele e la condanna degli atti terroristici di Hamas“.
Eppure, quando la sproporzione tra le vittime civili palestinesi e quelle israeliane è così evidente, e quando il diritto internazionale umanitario è sistematicamente violato, parlare di equilibrio suona come una scelta di complicità. Invece di affermare principi universali – come la protezione dei civili o il rispetto delle convenzioni di Ginevra – si opta per una prudenza diplomatica che svuota di senso l’etica dei diritti umani.
L’ETICA DELLE PRIORITÀ
In tutti i casi sopra descritti, l’invocazione dell’“equilibrio” non sembra un tentativo di armonizzare conflitti reali, ma una strategia per evitare decisioni impopolari, per non prendere posizione quando sarebbe necessario farlo. Ma su certi temi – la lotta al cambiamento climatico, la tutela della vita umana, la prevenzione delle pandemie, il rispetto del diritto internazionale – non può esserci “equilibrio” tra ciò che è giusto e ciò che è utile, tra ciò che è etico e ciò che è strategico.
Il filosofo Hans Jonas, nella sua “Etica della responsabilità”, sosteneva che le scelte politiche devono essere guidate non solo dal calcolo razionale ma anche da un principio di precauzione orientato alla sopravvivenza dell’umanità e della biosfera. Questo implica l’assunzione di priorità etiche, non il continuo bilanciamento tra interessi parziali.
CONCLUSIONE: IL CORAGGIO DELLE SCELTE
Siamo di fronte a una crisi polimorfa: ambientale, sanitaria, democratica, umanitaria. In questo contesto, l’invocazione dell’equilibrio non basta. Serve una nuova grammatica della responsabilità, che riconosca quando è il momento di scegliere, non di mediare. Quando è necessario dare priorità al bene comune globale, anche a scapito del consenso immediato o dell’interesse nazionale di breve termine.
L’equilibrio, se sincero, può essere virtù. Ma quando serve a mascherare l’inerzia o la vigliaccheria politica, diventa un alibi.
E un alibi, per definizione, è ciò che allontana dalla verità.
Giuseppe d’Ippolito