
Viviamo in un mondo iper-certificato, dove tutto — dai prodotti industriali ai servizi pubblici — sembra essere sottoposto a rigorosi controlli, regolamenti, valutazioni di qualità e protocolli di sicurezza. Eppure, ogni giorno accadono tragedie che smentiscono clamorosamente questa illusione di affidabilità diffusa. La morte silenziosa di un uomo, precipitato mentre montava una zanzariera nella propria abitazione, non fa notizia. Eppure è un segnale potente, un’eco che si perde tra le pieghe della cronaca locale, ma che interroga profondamente la nostra società. Questo articolo nasce da un fatto “minimo” – come lo chiamerebbe chi fa della selezione delle notizie un esercizio di superficialità – ma che in realtà è tragicamente rivelatore di un nodo irrisolto: la distanza tra i sistemi di controllo e la vita reale, tra i criteri di sicurezza e l’adattamento alle reali condizioni delle persone. La fragilità urbana, già al centro di precedenti riflessioni, si intreccia qui con un’altra vulnerabilità: quella di un corpo umano che cambia, invecchia, si affatica, ma continua a vivere in ambienti e con strumenti pensati per un’astratta efficienza senza età né contesto. Ci interroghiamo su cosa significhi oggi parlare di “sicurezza” e di “qualità”, parole che dovrebbero guidare le nostre scelte quotidiane ma che troppo spesso vengono deformate, svuotate o trasformate in strumenti di marketing. La qualità diventa sinonimo di lusso, riservata a pochi. La sicurezza, invece, è ridotta a un concetto bellico: ci protegge “da qualcosa”, piuttosto che adattarsi alle nostre esigenze o prevenirne i limiti. La società contemporanea, con la sua frammentazione delle competenze e la sua ossessione per l’apparenza, sembra incapace di vedere l’essenziale: che ogni sistema di certificazione dovrebbe partire dall’esperienza dell’utente reale, non da un ideale di efficienza disincarnato. Che l’informazione, l’educazione al consumo, la prevenzione dei piccoli rischi quotidiani sono parte integrante del benessere collettivo. E che il cambiamento, anche nei grandi temi come la sostenibilità o la transizione ecologica, parte sempre da come viviamo, ci muoviamo, lavoriamo e ci curiamo ogni giorno. Questa riflessione parte da una finestra, da una scala, da un corpo caduto e da un sistema che continua a non vedere.
Continuo la riflessione partita con l’articolo sulle fragilità urbane; lo spunto è venuto da una notizia minima (minima solo per la stampa, in realtà tragica), riportata sui giornali locali, che diceva : “Un uomo di 59 anni è morto dopo essere precipitato dalla finestra della sua abitazione a Lungotevere Testaccio a Roma. Dai primi accertamenti sembrerebbe si tratti di un incidente. L’uomo sarebbe caduto mentre montava una zanzariera.”
Quando succedono fatti così tragici, il mio pensiero va a quello che si sarebbe potuto fare per evitare la tragedia. E inevitabilmente vengono in mente le centinaia di morti sul lavoro. Anonimi, invisibili, quasi usuali; questo incidente, probabilmente, non andrà a ingrossare nemmeno queste statistiche, ingrossando – forse – quelle degli “incidenti domestici”, altro gruppo di tragedie che si svolgono nella “rassegnazione della fatalità”.
Il problema non cambia, perché la domanda su come si sarebbe potuto evitare, vale in ogni caso. E a questo punto sorgono altri dubbi, poiché sono tanti gli incidenti – domestici o sul lavoro – di gente che, ad esempio, cade da impalcature, scale, passerelle. Possibile che tutti (di ogni genere e di ogni età) abbiano bevuto un bicchiere di troppo prima di svolgere un lavoro o di fare un servizio in casa? Possibile che tanti prodotti e attrezzi utilizzati in questi casi siano così difettosi da mettere in pericolo la vita delle persone? L’amara ironia di queste parole mette in mostra aspetti importanti per la nostra vita quotidiana e, paradossalmente – ma non troppo -, tutti legati al tipo di vita che conduciamo.
Eppure, non c’è niente di ineluttabile o di imprevedibile nel modo in cui migliaia di persone anziane si rompono il femore (un movimento falso, un inciampo nel tappeto, lo scivolare dal letto). Il corpo umano, con l’andare del tempo, cambia le sue capacità, mentre la nostra percezione no, si adatta solo dopo un po’ e controvoglia. Avere un segnale anticipato, qualcuno o qualcosa che ci avvisino di cambiare alcune abitudini o di avere meno sicurezza nel compiere alcuni gesti, servirebbe. In molti casi a far perdere l’equilibrio è l’infiammazione della “cervicale”, quel “doloretto” a cui non facciamo caso e che a un certo punto si trasforma in rottura del collegamento nervoso. L’usura del nostro corpo non dipende solo dall’età, ma dallo sforzo quotidiano, dal tipo di lavoro, dall’abitudine al movimento. Fattori che qualcuno dovrebbe mettere in evidenza e che noi dovremmo utilizzare per comporre il sistema armonico individuale, da aggiornare periodicamente, senza incorrere nell’errore di fare alcune cose per migliorare la salute (ad esempio, correre) e ritrovarsi con una crisi cardiaca. Siamo in una società occidentale, che ha tagliato i ponti con la natura; una società interna ad un pianeta che ha seguito questo indirizzo, pur nelle migliaia di variazioni, adattandosi alla “vita metropolitana”, cioè ad un ambiente privo di fattori che aiutino la sensibilità dell’organismo a lavorare per il nostro benessere. In questa situazione sono fattori esterni, come l’istruzione, la formazione, l’informazione, che possono aiutarci a ritrovare le sensibilità perdute.
A questo dovrebbero servire i sistemi di controllo utilizzati per prodotti e servizi e le migliaia di indicatori che andiamo costruendo e che classifichiamo sotto le voci “qualità” e “sicurezza”. Il travisamento del senso di queste parole mostra la contraddizione in cui oggi viviamo.
Per molti la qualità è un qualcosa che rende il prodotto o il servizio preziosi, rari, quindi costosi. La qualità perciò non si colloca alla base della valutazione, ma al suo apice e fa del sistema di produzione una piramide in cui la qualità è qualcosa a cui tutti possono ambire, ma solo alcuni possono produrla e pochi possono utilizzarla. L’esatto contrario non solo di quello che la logica farebbe pensare, ma anche di ciò che nell’economia circolare o in quella rinnovabile dovrebbe realizzarsi. Pensate al mercato delle automobili, fondamentale per la società industriale in cui viviamo da un paio di secoli: i sedili comodi, quelli che permettono di spostarsi per ore senza avere la schiena a pezzi, sono per le auto “di lusso”, come lo sono anche alcuni sistemi di sicurezza che renderebbero più affidabile questo prodotto. Questa logica ha peggiorato gli effetti sui consumatori, i cui viaggi sono meno comodi di quello che potrebbero essere, e ha prodotto effetti collaterali opposti alle intenzioni: nonostante la dovizia di sicurezza e confort diffusa nei modelli “costosi”, gli incidenti più gravi avvengono spesso con queste auto. Solo da alcuni anni le innovazioni che rendono confortevole il viaggio tendono ad esser presenti nei modelli a basso costo, ma anche in questo caso sembrerebbe che la dinamica degli incidenti non dipenda da tali fattori. Uno scossone a questa logica è data dall’ingresso dei cinesi in questo mondo industriale dell’auto, con la diffusione di modelli con tutti i sistemi innovativi di sicurezza e confort in ogni categoria d’impiego e di prezzo. Una sorta di “democratizzazione” del mercato che, aggiunta alla diffusione del motore elettrico, modifica il senso di questo prodotto e avvicina il suo uso ad un impiego funzionale all’economia circolare e non al possesso di uno status simbol.
Per l’aspetto sicurezza, lo stravolgimento del senso reale del termine è arrivato al punto che il vocabolo non viene utilizzato nel linguaggio corrente per definire i comportamenti di lavoro o l’adattamento dei servizi alle specifiche realtà, ma per parlare di difesa. Un prodotto o un servizio sono sicuri se ci difendono da qualcosa e non se si adattano alle nostre esigenze. Quindi, per tornare ai tragici incidenti in casa o sul lavoro, un prodotto sicuro serve ad evitare che qualcosa si verifichi e non ad adattarsi alle specifiche condizioni d’impiego. Come accade per i medicinali, le cui istruzioni sono necessarie (anche se sembrano delle enciclopedie), un qualunque prodotto dovrebbe essere accompagnato da consigli generali per i possibili impieghi; ad esempio, per le scale correntemente utilizzate anche nei lavori casalinghi, sarebbe utile ricordare di evitarne l’impiego dopo una certa età, se si è convalescenti, o doloranti in alcune zone del corpo. Certo, non può essere detto tutto in poche righe illustrative, né possiamo pensare che esista il “rischio zero”, ma possiamo ricordare a tutti che l’uomo non è sempre efficiente sia nell’arco di una giornata che in quello della vita. A un certo punto alcune cose non si devono più fare, ed è necessario chiamare altri più efficienti a farle o farle noi stessi, ma in altro modo. Trovare la maniera per comunicarlo alle persone al momento giusto è una delle sfide che ci si pone attuando i sistemi di controllo.
Per riuscire a cambiare un sistema di controllo spesso non basta considerare la qualità e la sicurezza intrinseche nel prodotto, ma occorre valutarne l’impego e l’ambiente in cui è utilizzato; cioè, sostanzialmente, valutare la capacità che ha chi controlla nel fare queste valutazioni. Saper controllare e valutare chi lo fa è diventata una professione importante e strategica in una società parcellizzata, in cui le competenze non si basano su metodi e conoscenze comuni a tutti, ma su conoscenze specifiche. Se tutti noi abbiamo un’idea di cosa significhi controllare, pochi intendono cosa sia l’accreditamento che, in sostanza, significa controllare chi controlla.
Infatti, si definisce accreditamento “un processo che attesta la competenza e l’imparzialità di un organismo o di un laboratorio, garantendo che svolga attività di valutazione della conformità (come certificazioni, ispezioni, prove e tarature) in modo affidabile e conforme a standard internazionali. In sostanza, è un riconoscimento ufficiale da parte di un ente di accreditamento (Accredia in Italia), che attesta la capacità di un ente di svolgere determinate attività in modo competente”. Questa definizione, che inquadra la dimensione tecnica del problema, offre una sicura base per l’utilizzo dei prodotti, ma a mio avviso, risulta ancora insufficiente a garantire l’adattamento di un prodotto standardizzato alle specifiche realtà.
Non a caso la certificazione dei prodotti trova oggi una sponda nelle certificazioni di sistema e in quelle che chiariscono in che “ambiente” è stato creato o viene utilizzato il prodotto; l’ambiente non viene valutato solo con parametri tecnici, ma anche con parametri sociali ed ambientali. Ad esempio, la valutazione di genere è ormai una “cartina di tornasole” per le imprese che intendono avere un’immagine che accompagni il prodotto o il servizio, soprattutto nei commerci internazionali.
Ma quella parte di valutazione ancora poco utilizzata è quella a valle delle produzioni. I consumatori (o gli utilizzatori) di un prodotto sono oggi considerati solo come punto finale di un sistema e non una parte di esso. Chi consuma qualcosa non è parte di ciò che ha utilizzato e questo rende le produzioni sempre estranee. Una delle conseguenze, ad esempio, è che la partecipazione all’immagine del “made in Italy” risulterà sempre una costruzione pubblicitaria che si reggerà solo se supportata da campagne di marketing e finanziamenti e non un’idea “sociale”. Permettere ai consumatori di entrare nel sistema dei prodotti vuol dire rendere tutte le produzioni più circolari, in grado di ritornare al consumo sotto altre vesti e di partire dal consumo attraverso il reimpiego degli scarti. Vuol dire essere presenti, come consumatori, nei controlli e nell’accreditamento, ma anche costruire attraverso il contributo degli stessi consumatori un utilizzo differente dei prodotti e dei servizi.
Per tornare al tragico esempio iniziale: se ci fosse una struttura a basso costo – diffusa e conosciuta – per eseguire rapidamente piccoli lavoretti a domicilio, e se la formazione prevedesse una istruzione popolare sul “fai da te”, che spesso si basa unicamente sulle pubblicità e non su informazioni più complete, e se ci fosse più cooperazione tra tutti…….con i “se” purtroppo non si cambiano gli eventi, ma i “se” ci aiutano a pensare in modo differente e trovare soluzioni meno individuali. Chiedere a qualcuno di darci una mano perché abbiamo tutti dei limiti nelle capacità, facendolo sempre, è un modo per affrontare i piccoli e grandi problemi con meno angoscia e meno fretta. È un metodo che serve nella vita quotidiana per renderla viva, ed è la base per affrontare anche grandi temi come il cambiamento climatico.
Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti