
Viviamo in un’epoca in cui l’evidenza scientifica del cambiamento climatico è chiara, schiacciante e documentata da decenni di ricerche. Eppure, nel dibattito pubblico, continuano a trovare spazio voci che negano questa realtà, minando la possibilità di una risposta collettiva efficace. A prima vista, si potrebbe pensare che anche queste opinioni debbano essere tollerate in nome della libertà d’espressione. Ma cosa accade quando la tolleranza verso l’intolleranza diventa pericolosa? A questa domanda ha risposto già nel secolo scorso il filosofo Karl Popper, con la sua celebre teoria del “paradosso della tolleranza” nel suo libro “La società aperta e i suoi nemici” (1945). Secondo Popper: “Una tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza stessa.” In altre parole, una società tollerante, per rimanere tale, deve essere intollerante verso l’intolleranza. Se permette agli intolleranti di propagare le loro idee senza limiti, questi possono gradualmente distruggere la libertà stessa che ha permesso loro di esprimersi. Popper non invoca la censura preventiva, ma sostiene che, quando gli intolleranti rifiutano il dialogo e usano la violenza o la propaganda per distruggere la società aperta, è legittimo (e necessario) respingerli anche con mezzi coercitivi. Quindi, i tolleranti devono tollerare gli intolleranti finché questi accettano la convivenza pacifica e il dibattito razionale. Ma devono difendere la democrazia se questa viene minacciata da chi mira a distruggerla. Applicare il paradosso della tolleranza di Popper al contesto climatico significa chiedersi: fino a che punto chi crede nella scienza climatica deve tollerare chi nega l’evidenza del cambiamento climatico? Oggi, questa riflessione assume un significato drammatico di fronte all’inerzia indotta dal negazionismo climatico. Lungi dall’essere una semplice opinione, il rifiuto della crisi climatica rappresenta un sabotaggio delle basi razionali su cui poggia ogni democrazia ecologica. Alla luce di ciò, possiamo chiederci: come rispondere a chi nega la realtà della crisi climatica, senza rinunciare ai principi democratici e al rispetto reciproco?
Il negazionismo climatico tra disinformazione e sfiducia
Non tutti coloro che si oppongono all’idea di cambiamento climatico lo fanno per malafede. Alcuni sono disorientati dalla complessità dei dati o dalle implicazioni socio-economiche delle politiche ambientali. Altri, pur avendo accesso alle informazioni, restano ancorati a visioni ideologiche o a interessi specifici. È importante distinguere tra chi è in buona fede e cerca risposte, e chi invece, in modo sistematico e strategico, cerca di minare la fiducia nella scienza o di bloccare interventi urgenti.
I negazionisti del clima: chi sono davvero?
Il termine negazionista climatico non si riferisce più soltanto a chi nega apertamente il riscaldamento globale. Oggi include un ampio spettro di attori che, con varie sfumature, ostacolano la comprensione, l’accettazione o l’attuazione delle misure necessarie per affrontare la crisi climatica. Non sempre si tratta di individui ignoranti della scienza: molti negazionisti sono ben informati, ma agiscono per interessi politici, economici o ideologici.
Ma io non sto parlando di semplici cittadini confusi o in cerca di chiarezza. Il negazionismo climatico è un fenomeno complesso, spesso sostenuto da interessi economici strutturati, strategie di disinformazione organizzata e una profonda sfiducia nei confronti delle istituzioni scientifiche. I negazionisti rifiutano le prove scientifiche consolidate sull’origine antropica del riscaldamento globale; i negazionisti distorcono il dibattito pubblico, presentando le loro tesi come “opinioni legittime” accanto a fatti scientifici; i negazionisti ostacolano politiche pubbliche urgenti e necessarie, ritardando o bloccando interventi cruciali di mitigazione e adattamento.
Chi sono i negazionisti oggi
Think tank e lobby industriali. Organizzazioni ben finanziate, spesso legate al settore energetico, che manipolano dati e diffondono dubbi per rallentare la transizione ecologica. Leader politici sovranisti e populisti. Usano il negazionismo per cavalcare il malcontento economico, presentando le politiche climatiche come un “lusso elitario” che penalizza il popolo. Influencer e opinionisti. Personaggi mediatici con ampio seguito che amplificano teorie pseudoscientifiche, sfruttando la logica del click bait e la disinformazione online.
In questo senso, non siamo davanti a un semplice esercizio di libertà d’espressione. Il negazionismo climatico è diventato una forma di intolleranza distruttiva, perché mina le basi scientifiche e morali su cui dovrebbe poggiare la nostra risposta collettiva alla crisi ecologica.
Libertà di espressione o difesa del bene comune? Il dilemma contemporaneo
Nel cuore della democrazia liberale batte un principio sacro: la libertà di espressione. È il diritto di parlare, dissentire, criticare e proporre idee, anche scomode. È ciò che permette l’evoluzione del pensiero, la critica al potere, la nascita di nuove visioni. Tuttavia, questa libertà non è assoluta. Nessuna democrazia consente la propaganda dell’odio razziale, l’istigazione alla violenza o la disinformazione che mette in pericolo la salute pubblica.
Chi invoca la libertà d’espressione per giustificare la presenza dei negazionisti nei media o nei parlamenti dimentica una cosa fondamentale: la libertà ha senso solo se esiste una base di verità condivisa, un terreno comune su cui costruire le scelte collettive.
Nel contesto della crisi climatica, emerge allora un nuovo campo di tensione: possiamo ancora considerare “opinione legittima” il negazionismo climatico, quando questo compromette la possibilità di agire in tempo per salvare milioni di vite e l’equilibrio degli ecosistemi?
Difendere la libertà significa anche difendere la scienza come strumento di orientamento nella complessità. Quando si mette sullo stesso piano l’evidenza empirica e l’opinione infondata, si tradisce proprio quella democrazia che si pretende di tutelare.
Quando i media offrono pari visibilità a scienziati del clima e a opinionisti negazionisti, non stanno tutelando la pluralità delle idee: stanno alimentando una falsa equivalenza. E questa falsa equivalenza ritarda l’azione pubblica, confonde l’opinione pubblica, protegge lo status quo.
Tolleranza e responsabilità: trovare l’equilibrio
Il paradosso di Popper ci invita a non confondere apertura con ingenuità. In un contesto democratico, ogni idea ha diritto di cittadinanza, ma non ogni narrazione ha lo stesso valore se mette a rischio il bene comune. Non si tratta di escludere chi la pensa diversamente, ma di evitare che voci disinformate o manipolatorie ricevano lo stesso peso di un consenso scientifico costruito su anni di ricerca. Anche i media hanno una grande responsabilità: offrire uno spazio di confronto pluralistico non può significare dare pari spazio a chi nega l’esistenza di un problema e a chi lo documenta scientificamente. Evitare la falsa equivalenza è un atto di onestà intellettuale e di rispetto verso l’intelligenza collettiva.
Libertà di espressione e bene comune: l’equilibrio possibile
La libertà di espressione è il cuore pulsante della democrazia. Ma come ogni diritto, vive nel contesto di altri diritti. Quando un’idea — pur legittima in sé — contribuisce a generare ritardi in azioni necessarie alla tutela della salute pubblica o dell’ambiente, allora nasce un’esigenza di bilanciamento. Nessuna democrazia può prosperare senza una base di verità condivisa, o senza la fiducia nella conoscenza.
Chi nega la crisi climatica non va zittito, ma va chiamato al confronto serio, documentato e responsabile. E chi ha maggiori strumenti e conoscenze — scienziati, educatori, giornalisti — ha anche il dovere di costruire ponti comunicativi e di chiarire, con pazienza, senza mai cedere al disprezzo o alla delegittimazione dell’altro.
Verso una cittadinanza ecologica informata
Difendere il bene comune significa anche saper riconoscere i limiti del dibattito quando questo viene manipolato. Ma significa, ancor più, scommettere sull’educazione, sulla trasparenza, sulla possibilità di coinvolgere sempre più persone in un percorso di consapevolezza. Regolare i contenuti tossici è una misura estrema, da valutare con attenzione. Più che vietare, è preferibile formare: nelle scuole, nei media, nei luoghi della partecipazione.
Agire ora: verso una democrazia ecologica
Siamo entrati in una nuova fase storica, dove la sopravvivenza delle società umane dipende dalla capacità di rispondere in modo deciso alla crisi climatica. In questa cornice, la democrazia ecologica richiede anche una cultura della responsabilità nella comunicazione.
Questo significa contrastare attivamente la disinformazione climatica nei media, nelle scuole, nelle piattaforme digitali. Ma anche regolare la diffusione di contenuti negazionisti, come si fa con le fake news sanitarie o l’incitamento all’odio e educare alla complessità e alla cittadinanza ecologica, affinché nessuno possa più dire “non lo sapevo”.
Conclusione
Non è intollerante chi chiede che il dibattito sulla crisi climatica si fondi sui dati e non sulle opinioni. Intolleranza è, piuttosto, chiusura sistematica al confronto, manipolazione dell’informazione, disprezzo verso la conoscenza condivisa.
La sfida che abbiamo davanti non è solo ambientale: è anche culturale. Sta a noi scegliere se affrontarla costruendo muri, o promuovendo dialoghi esigenti ma aperti, che mettano la verità al servizio della convivenza e della vita futura sul pianeta.
Perché difendere la verità sul clima è oggi un atto essenziale di democrazia e responsabilità collettiva.
“Solo i popoli informati possono fare scelte libere” (Papa Leone XIV durante il suo incontro con i giornalisti il 12 maggio scorso).
Giuseppe d’Ippolito