
Siamo abituati a pensare alla lotta contro il cambiamento climatico in termini di emissioni, energia e tecnologie verdi. Raramente ci soffermiamo su quanto i principi di sostenibilità e resilienza siano connessi alla qualità della vita quotidiana, soprattutto per chi vive condizioni di fragilità o disabilità. Eppure, affrontare seriamente la sfida climatica significa anche ripensare le nostre città, le nostre relazioni sociali, il nostro modo di progettare lo spazio pubblico. In questo contesto, la disabilità non è solo una condizione individuale da assistere, ma diventa un potente indicatore del grado di giustizia e lungimiranza di una società. Questo articolo nasce da un’esperienza personale e si sviluppa come riflessione collettiva. Il contatto diretto con una condizione di disabilità ha trasformato l’autore, mettendolo in ascolto di una realtà spesso invisibile, marginalizzata, persino osteggiata nella sua quotidianità. Le barriere architettoniche, la burocrazia sorda, le logiche di efficienza che dominano la società dei consumi, diventano così simboli di un modello culturale che fatica ad accogliere la vulnerabilità come parte integrante dell’esistenza umana. Ma è proprio da questa fragilità che può nascere un diverso sguardo sul futuro. Un modello urbano capace di includere chi è in difficoltà sarà inevitabilmente più sicuro, più accessibile, più equo anche per tutti gli altri. Interventi strutturali come la manutenzione di marciapiedi e strade, l’abbattimento delle barriere, la fruibilità reale degli spazi pubblici, non sono semplici spese sociali: sono investimenti ecologici e democratici. Rieducare le nostre città e i nostri comportamenti alla prossimità, all’attenzione reciproca, alla prevenzione dei disagi, è un atto profondamente politico e profondamente climatico. Questo testo invita quindi a rovesciare lo sguardo: non si tratta solo di “integrare” chi è disabile, ma di riconoscere che senza un pensiero strutturale della fragilità – fisica, ambientale, sociale – nessuna transizione ecologica sarà davvero possibile. Perché, come ricorda Papa Francesco, ciò che facciamo per gli ultimi lo facciamo per l’intera comunità. E se una città funziona per chi ha più difficoltà, funzionerà meglio per tutti.
Inizio con una domanda: correggere e intervenire contro le malattie invalidanti o le condizioni di disabilità, giova alla lotta contro il cambiamento climatico? Anche se la risposta è affermativa, l’evidenza è più difficile a spiegare. Sembra una questione piuttosto banale e la soluzione è meno semplice di quello che ci si aspetta, sia a livello teorico che nella dimensione pratica.
L’occasione per questa piccola riflessione mi è stata offerta dal concertone, l’appuntamento annuale che in piazza San Giovanni a Roma si tiene ogni anno il 1° maggio e contemporaneamente dai video che sui “social” promuovono le iniziative della amministrazione capitolina. La città di Roma è impegnata su diversi fronti: la sfida del Giubileo (con l’aggiunta dell’imprevisto Conclave in corso) e la realizzazione degli investimenti del PNRR, necessari per farne una metropoli più resiliente con le due stazioni /museo della metropolitana nel centro della città (a Porta Metronia e Piazza Venezia). Ma il motivo per cui mi sono posto la domanda è legato ai cambiamenti di vita dell’ultimo anno: convivo con una persona disabile, cercando di svolgere le normali attività. Forse sarebbe più corretto dire: “tentando di compiere le attività, normalmente” (che certamente non significa farle come avveniva in precedenza).
Nonostante sia da molto tempo all’interno di una associazione che tutela i consumatori, non mi ero mai posto dinanzi alla realtà della disabilità, della sua complessità e delle sue profonde implicazioni, né avevo mai pensato che potessi svolgere, affrontando questi aspetti, un ruolo propositivo rispetto alla lotta contro il cambiamento climatico. Come la maggior parte delle persone, ritenevo che cercare di attuare strumenti di tutela e di difesa delle persone disabili fossero le uniche strategie possibili. Invece ho appreso che il con-vivere con qualcuno in queste condizioni, pure nelle difficoltà, modifica il proprio punto di vista sui problemi e permette la comprensione di aspetti sociali che diversamente non emergerebbero alla nostra attenzione.
Non intendo affrontare il discorso sulla disabilità partendo dalle inefficienze e dalla (dis)funzione svolta dalla burocrazia e dalle amministrazioni; loro malgrado, spesso esse agiscono come a voler punire le persone disabili e, con esse, quanti si trovano al loro fianco. Cadrei nel banale e poco produttivo lamento che si produce quando ci si imbatte nelle difficoltà. Penso sia invece più utile affrontare il discorso dal punto di vista della riuscita. Cosa succede quando si trovano soluzioni che riducono l’incidenza della disabilità? Come si collocano nell’assetto della vita quotidiana della comunità che le produce?
La prima constatazione è che la dimensione cronica e duratura della disabilità viene considerata da tutti, non solo dalla burocrazia, “un incidente di percorso”. Da fatto definitivo, che muta la vita dell’essere che lo subisce e di coloro che lo circondano, il danno che rende disabili è considerato un fatto momentaneo, tanto da richiedere anche nel caso delle malattie croniche progressivamente invalidanti un esame periodico della disabilità. Se nel caso delle amministrazioni il fatto assume un aspetto grottesco, spesso rilevato in sede giornalistica, nella società la logica espressa da questa valutazione produce un effetto di rimozione e di attesa, come se ci si aspettasse con il tempo un ritorno a condizioni di efficienza maggiori delle persone. La stessa disabilità è vissuta come un fatto eccezionale, quasi arrivasse improvvisamente (questo avviene solo in una parte dei casi) e non come la progressiva dinamica naturale della materia vivente. Il meccanismo avviato dalla società dei consumi, di efficienza perenne e di sostituzione del materiale inefficiente, ha prodotto l’effetto di fare viaggiare il genere umano verso il mito dell’eterna giovinezza, con il dovere di essere sempre efficienti nelle attività come se si avesse sempre la stessa età. I suoi effetti sono evidenti: pensioni ad età sempre più tarda, scarsa considerazione di un anziano poco efficiente, la disabilità vissuta come colpa.
Non stupisce se non vi sia spazio per la prevenzione o per rendere l’ambiente accettabile anche a chi sia disabile. Le persone che avanzano per le strade con bastoni, sedie a rotelle e deambulatori , lamentandosi per le condizioni delle strade, non trovano orecchie attente alle loro lamentele: perché le strade dovrebbero essere costruite in funzione di chi è malfermo o cammina male? Perché si dovrebbe impedire o rallentare gli effetti di una cattiva “efficienza motoria” (prendo come esempio casuale una disabilità evidente), quando è molto più semplice offrire strumenti di supporto per i singoli casi? Servirebbe che ci si allargasse a valutazioni basate sulla non reversibilità di alcuni effetti, la cui la diffusione blocca l’efficienza di parte della società, per dare una priorità agli interventi strutturali ed agli investimenti.
La manutenzione delle strade, dei marciapiedi, delle aree di verde pubblico è considerata un costo spesso insostenibile e non un investimento che riduce l’incidenza di talune patologie. È un problema comunitario i cui si ha scarsa coscienza. In un incontro di associazioni europee di tutela dei consumatori, alla domanda: “quali sono i problemi prioritari per migliorare la vita dei cittadini”, risposi dicendo la manutenzione delle strade e dei marciapiedi, invece di parlare della inefficienza burocratica o del costo dell’energia; fui visto come una persona che non aveva capito la domanda. Ma la UE è composta da cittadini progressivamente più vecchi e con minore efficienza fisica e da un ambiente che indebolisce le nostre strutture ossee e muscolari. Che politica di prevenzione si pensa di attuare se non si permette alle persone di muoversi in sicurezza (questa sarebbe la vera politica della sicurezza) nelle case e fuori di esse?
Invece si punta ad una sorta di indennizzo parziale delle inefficienze individuali, attraverso bonus ed esenzioni, permessi e acquisti di strumenti coadiuvanti. Montando un sistema di burocrazia farraginoso e sostanzialmente inutile, si realizza il meccanismo di “premialità della disabilità” che, oltre a causare la creazione di gruppi di interesse legati al suo uso, speculativo o consumistico, ottiene effetti distorsivi visibili. Prima di tutto sul mercato delle riabilitazioni, poi sul costo delle valutazioni e sul sistema di controlli; sarebbe molto più semplice ridurre la casistica, intervenendo sulle cause o sull’ambiente che circonda il disabile. L’aumentata sensibilità a questo genere di problemi data dal caso personale, mi permette di vedere nei gesti quotidiani il segno di quelli futuri: le persone che oggi camminano con difficoltà o con “doloretti” a cui prestano poca attenzione, sono i potenziali disabili dei prossimi dieci anni. Se unissimo una valutazione sull’alimentazione delle persone al progressivo aumento del loro peso, con la parallela riduzione dei movimenti nel tempo, avremmo un quadro chiaro delle potenziali affezioni degli ultracinquantenni nel prossimo futuro.
Mi chiedo perché quello che a me è chiaro, trovandomi a contatto diretto con un caso concreto, non lo sia agli occhi degli amministratori di una qualsiasi cittadina. L’incapacità a vedere il futuro come un fatto dinamico, con valori crescenti o calanti a seconda delle fasi della vita, non è solo conseguenza di mala gestione o di superficialità nell’affrontare i problemi. Vi è qualcosa di più profondo che possiamo constatare nelle dinamiche quotidiane e negli episodi che le manifestano. E ritorno agli esempi che mi hanno fatto riflettere.
Nella partecipazione alla kermesse musicale del 1° maggio a Roma, fatta con mia moglie sulla sedia a rotelle, ho riscontrato gentilezza e attenzione da parte degli addetti dell’organizzazione dell’evento e delle forze dell’ordine assieme, contemporaneamente, alla incapacità della folla presente di guardarsi attorno ed avere il senso della prossimità. L’effetto finale, unito alla presenza di salti sull’asfalto, barriere e marciapiedi sconnessi, era di non poter avanzare se non con una faticosa tecnica “rompighiaccio”. Vi era una differenza sostanziale dalle folle che popolavano i concerti di cinquant’anni fa, le cui condizioni erano peraltro molto più precarie. Ma alla precarietà si sopperiva con la reciproca attenzione e la cooperazione, cose oggi poco presenti. Ad una signora che, inciampando, è caduta – per fortuna senza conseguenze – siamo corsi in soccorso io e un signore con bastone e non la massa di persone ben più valide fisicamente che erano presenti. L’incapacità di allargare lo sguardo agli altri provoca questa sorta di cecità collettiva. Investire su questo percorso rieducativo avrebbe – di fatto – riscontri positivi certamente maggiori di quelli derivanti dalla creazione di sofisticati sistemi di sicurezza. E mi sono posto una piccola domanda a margine: ma se un evento culturale (qualunque sia la sua forma) non spinge verso una maggiore capacità di guardarsi attorno, se le condizioni per realizzarlo non riducono i consumi energetici e l’inquinamento che vi si realizza, e se le stesse fonti energetiche non sono rinnovabili, quale è la ragione che spinge alla sua ripetizione periodica? Papa Francesco ci ha insegnato che i rituali fini a se stessi perdono valore e diventano simulacri e solo una maggiore freschezza e semplicità potrebbe riportarli alla forza del loro significato originale.
Ma quali sono le condizioni che rendono efficiente e rigenerativo un sistema di convivenza nelle metropoli? La pubblicità che la città di Roma fa sulle reti social della creazione di piste ciclabili e delle nuove stazioni della metropolitana mi riporta al tema del greenwashing affrontato in un altro articolo. La lodevole iniziativa di costruire percorsi ciclabili, se non unita al paziente ripristino delle condizioni stradali e dei marciapiedi, diventa un mero esercizio di stile, con il paradosso di dover utilizzare l’auto per portare la bicicletta fino al percorso ciclabile. Se con la sedia a rotelle volessi usufruire dei giardini o dei musei, prima ancora di poter arrivare agli ingressi adatti, dovrei seguire un percorso ad ostacoli per cui – esperienza personale – è richiesta una preparazione preventiva in tempi e percorsi. Per non parlare della presenza del brecciolino (di cui sono pieni i giardini) che si adatta bene all’ambiente ma impedisce al mezzo di avanzare.
E che dire delle nuove stazioni della metropolitana in costruzione e dei suoi percorsi, che saranno certamente belli ed interessanti, ma che non potranno essere alla reale portata dei disabili se vengono progettati con caratteristiche simili a quelle delle precedenti stazioni. Ancora una volta si ripropone il dilemma della fruizione degli spazi pubblici con doppia funzione: turistica e funzionale.
La realizzazione di opere all’insegna della “rigenerazione urbana”, anche se fatta con i migliori strumenti e con le migliori intenzioni, non sempre genera effetti green. È la conseguenza della visione specialistica che ha caratterizzato il secolo scorso e la cui conseguenza è la mancanza di visione globale. Con l’esperienza che vivo ho imparato che mettere a punto procedure e realizzare interventi funzionali ai disabili, rende migliore la nostra vita, non solo la loro; un principio generale che Papa Francesco sottolineava sempre: interessarsi alle condizioni degli “ultimi” non è un favore fatto a loro, ma a noi stessi.
Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti