Come ogni anno, con il rito della Pasqua, si rinnova quello della macellazione seriale dei giovani ovini, l’agnello a cui in una delle invocazioni recitate dai cristiani si chiede di “avere pietà di noi”. Quest’anno, in particolare, l’importanza del pranzo pasquale è stata incrementata dalla coincidenza della Pasqua cattolica con quella ortodossa ed ebraica, entrambe precedute solo di qualche settimana dalla festa mussulmana di fine Ramadan detta dell’Eid al-Adha.

 

 

Quella che si prefigura comunque come un’ecatombe di incolpevoli animali, assume un valore ancora più tragico a causa degli inviti del re del Marocco fatti prima della fine del Ramadan. Infatti, Mohammed VI, re del Marocco, ha esortato la popolazione a non acquistare pecore da macellare durante le festività dell’Eid al-Adha di quest’anno, a causa dell’enorme diminuzione del numero di ovini nel Paese. Ne sottolineo l’importanza poiché, in un messaggio letto alla televisione, il monarca – che è anche la massima autorità religiosa dello Stato – ha affermato che l’inflazione record e il cambiamento climatico sono responsabili dell’impennata dei prezzi del bestiame e della carenza di pecore. “Vogliamo consentirvi di compiere questo rito nelle migliori condizioni possibili. Ma dobbiamo considerare le sfide climatiche ed economiche che il nostro Paese si trova ad affrontare…….Eseguire il sacrificio in queste circostanze causerebbe un danno ad ampi segmenti del nostro popolo, specialmente a chi ha un reddito basso“. Le sue parole colpiscono per avere unito alla dimensione religiosa il senso della qualità della vita terrena.

Ripresa a fuoco selettivo di una simpatica pecora bianca in piedi in mezzo a un terreno erbosoAspettiamo, purtroppo, che un invito di questo genere giunga anche dalle nostre autorità religiose; esso manca, nonostante il Papa Francesco abbia più volte mostrato consenso verso gli impegni e le sfide che il cambiamento climatico impone e abbia manifestato una propensione verso la sobrietà e il rispetto della natura. La ragione del mercato e del business impongono la mattanza, anche in condizioni difficili e di crisi del settore. Si deve segnalare la perenne crisi che da decenni affligge “il mercato delle carni”, attribuita a fattori più diversi e rilevare anche la involontariamente ironica dizione di “mercato delle carni”, che allontana dagli acquirenti l’idea di uccisione di giovanissimi animali strappati alle loro madri e uccisi in modo cruento e privo di reale significato, perché in occasioni come la Pasqua o il Natale il senso del rituale si è perso nel tempo e il consumo di carne ha acquisito presso di noi un banale significato. Con l’espandersi della cosiddetta civiltà occidentale, simbolo di uno status di emancipazione acquisito, esso ha conquistato consumatori presso popolazioni (indiane, coreane, cinesi praticanti il buddismo o l’induismo, ad esempio) che per diversi motivi avevano mantenuto sino a pochi decenni fa un’alimentazione a basso consumo di carne, se non priva di essa.

Molti ne hanno segnalato anche l’ipocrita necessità motivata da motivi salutistici. Al contrario, tutte le indicazioni di prevenzione indicano nell’accresciuto consumo di carne una delle principali cause di insorgenza di patologie sin dalla giovane età e della presentazione di patologie croniche legate al suo costante consumo.

Non ripeterò qui le migliaia di dati che spingono l’Organizzazione mondiale della Sanità (quella da cui Trump vorrebbe separarsi e di cui farebbe volentieri a meno) a inserire la carne (in particolare i muscoli e le fibre che li compongono) all’interno delle sostanze che causano l’insediamento di malattie da mutagenesi soprattutto nel colon e nell’intestino. Non a caso tutti noi riceviamo periodicamente dalle Asl l’invito a sottoporci in modo gratuito all’analisi delle feci e all’esame delle condizioni del colon. Se rilevo questi aspetti della vita quotidiana e li collego al consumo (anche) di carne, vedo i volti increduli dei miei interlocutori, tanto è forte il condizionamento ideologico e il pregiudizio scientifico causato dall’affermazione, portata dalla società industriale e di mercato, che la carne è benessere e aumento delle capacità e delle prestazioni. Non è la carne che migliora le nostre condizioni di vita, ma un’alimentazione equilibrata tra i diversi fattori; le proteine, nucleo centrale del discorso portato dalle persone “carnivore” per sostenerne l’indispensabilità del consumo e fattore condizionante del successo del consumo di carne, si possono ottenere da molti altri elementi vegetali. Purché l’alimentazione sia varia e fatta attraverso cibi sani e non gonfiati dalla quantità di concimi chimici e carichi di componenti aggiunte (additivi, antiparassitari, conservanti, residui più vari) che il percorso dal campo al piatto ci riserva.

Primo piano di una giovane pecora che dormeLe parole del re del Marocco ci riportano tragicamente alla realtà dei fatti: dinanzi alla siccità e alla crisi economica l’allevamento risulta uno dei punti più fragili del sistema agricolo ed uno dei punti deboli del sistema economico, essendo un grande consumatore di risorse con scarso rendimento energetico ed economico. Con quello che utilizziamo per alimentare gli animali e con la parte di alimento che in realtà utilizziamo per la nostra nutrizione (piccola rispetto allo spreco di energie, acqua e risorse attuato) si potrebbero tranquillamente nutrire in modo più che soddisfacente cinque volte il numero di persone nutrite con carne. Per non parlare dello smaltimento dei rifiuti e del loro utilizzo, una delle cause di epidemie a partire dalla diffusione del morbo cosiddetto della “mucca pazza”: poveretta, lei non c’entrava niente, era la prima vittima della follia umana di trasformare erbivori in carnivori.

In un libro recente di Gianluca Felicetti, presidente della LAV (Lega Anti Vivisezione) dal titolo “La politica degli animali” (people edizioni) sottolinea in modo chiaro questi aspetti ora citati e li collega ad altri più generali che illuminano le ragioni per cui la politica si disinteressa a questo problema e, invece di offrire vie d’uscita agli agricoltori in crisi economica dando loro alternative produttive, preferisce trasformare tutto in situazione d’emergenza offrendo delle scarse compensazioni e scaricando il tutto sulle tasche dei cittadini. Agli stessi cittadini non si offre niente di utile affinche si prevenga o si riduca l’insorgenza di malattie cardiovascolari, di obesità o di cancro, attraverso un politica di prevenzione e miglioramento qualitativo dell’alimentazione con una significativa riduzione delle quantità.  Si preferisce la cronicizzazione delle malattie con il relativo consumo di farmaci. Anche a questo serve la mattanza degli agnelli in una società industriale di mercato.

Vorrei richiamarmi in questa occasione al valore anche simbolico dell’uccisione e dell’utilizzo degli altri animali a nostro consumo, perché quella fatta a danno dei poveri agnelli è un massacro a danno di vite innocenti, fatto in modo crudele e comunque accettato da tutti noi con indifferenza se non con fastidio verso chi ne parla. Ricordo il titolo italiano di un film che vi si richiamava, Il silenzio degli innocenti. È un horror-thriller del 1991 di grande successo (anche di critica, poiché vinse 5 Oscar), il cui titolo originale The Silence of Lambs (letteralmente: il silenzio degli agnelli) ricorda meglio della traduzione italiana ciò che accade durante la loro uccisione, quando essi, terrorizzati nel vedere la morte di uno di loro, smettono di urlare e lamentarsi, piombando in un agghiacciante silenzio.

Devo ricordare che il metodo di uccidere un esemplare dinanzi agli altri animali urlanti è stato un metodo efficientemente utilizzato in tutti i macelli industriali, a prescindere dal metodo più o meno cruento di uccisione degli animali allevati “per alimentazione”. Se si visita l’ex mattatoio di Roma, luogo diventato sede di mostre, musei e dibattiti culturali, si possono ammirare le vecchie strutture del grande mattatoio romano dell’Ottocento, archeologia industriale con percorsi e rotaie sopraelevate su piccoli box e recinti che contenevano in passato le bestie destinate al macello. Questi percorsi erano destinati al transito elle carcasse degli animali uccisi; la vista dei loro simili trucidati serviva per ammutolire quelli presenti.

Il metodo fu studiato ed utilizzato dalle SS nella gestione dei Lager per ebrei, diversi e dissidenti, i quali assistevano impotenti al transito dei loro fratelli destinati al mattatoio. Anche in questo caso Annamaria Rivera, antropologa di livello internazionale, studiosa della relazione tra uomo e animale, ha recentemente pubblicato un libro dal titolo “Animali esseri sensibili” (Empateya edizioni) che, in brevi e chiare pagine di analisi, divulga il concetto di “antropologia animalista”, cerca di riportare alla realtà di ogni singolo essere le generiche categorie in cui definiamo gli altri esseri viventi e analizzando gli effetti delle relazioni sociali alla luce del comportamento di noi con gli animali e degli stessi animali tra  loro e con noi.

Agnelli appena nati che dormono

La difesa delle individualità, del punto di vista animale, per cui dovremmo sempre chiederci se vorremmo che gli animali si comportassero verso di noi come noi facciamo con loro; la stigmatizzazione della mercificazione degli animali; la critica al razzismo, al sessismo, alla sete di dominio, tutti questi elementi si uniscono in un unico filo: la difesa della nonviolenza e della natura. Emerge nel saggio il legame tra i diritti umani e quelli di tutti i viventi, tra il nostro destino e quello degli altri, in un mondo sempre più sfruttato e al collasso.

Un mondo in cui – dice la Rivera –  «La messa a distanza e l’assegnazione al campo “inferiore” della natura, degli animali, delle donne e degli “estranei” si riflette tutt’oggi nei sistemi teorici e nei lessici dello specismo, del sessismo e del razzismo, nei quali i riferimenti alla Natura e agli animali sono così centrali e ricorrenti da configurarsi come universali.»

Una discriminazione culturale, sociale, economica di cui i piccoli sono le prime vittime: a Gaza, in Ucraina, negli attentati, nelle festose ricorrenze religiose, spesso nemmeno considerati, come accade per i pulcini maschi, soppressi perché non produttivi nel ciclo industriale.  Tutto ciò raramente fa notizia e sempre più spesso è vissuto passivamente perché, in fondo, i bambini, i disabili, i diversi, la donna devono stare un passo indietro e sono ancora più fortunati di miliardi di animali sfruttati.

In questi giorni parliamo di non violenza e di come ribellarsi alla guerra ed ai suoi effetti. Una delle ribellioni non violente è proprio questa: ribellarsi al piatto pasquale a base di carne di agnello.  Come dico ai miei amici: “Io non mangio cadaveri, e voi?

Gianfranco Laccone, agronomo, presidenza nazionale ACU Associazione Consumatori Utenti

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